GUCCINI: «PAPÀ AFFAMATO IN PRIGIONIA DURANTE LA GUERRA SI SCRIVEVA LE RICETTE DEI TORTELLINI»

Si chiamava Ferruccio e durante la Seconda guerra mondiale, da soldato, fu deportato in campo di concentramento in Germania. A 30 anni dalla morte è stato insignito della medaglia d’onore dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

 

Che cosa direbbe oggi suo padre Ferruccio?

«Direbbe “grazie, ne sono felice, ma nei campi di prigionia non c’ero solo io. Eravamo in tanti lì dentro”».

 

Era una persona schiva?

«Moltissimo. Ma aveva anche un certo senso della giustizia e riconosceva che quella dei prigionieri di guerra è stata una condizione che ha toccato migliaia di persone. Per intenderci: assieme a lui, nel campo di lavoro in Germania, ce n’erano tremila e più».

A parlare è Francesco Guccini. Tutti lo conoscono come il cantautore che ha scritto canzoni quali «L’avvelenata» o «La locomotiva», ma forse non tutti sanno che è stato anche il figlio di Ferruccio, nato nel 1911, soldato catturato a Corinto dopo l’8 settembre 1943 e deportato nei campi di Leopoli prima e di Amburgo poi proprio perché si schierò contro il nazifascismo. E ieri, a più di trent’anni dalla morte, gli è stata conferita la medaglia d’onore per non aver aderito alla Repubblica Sociale, assieme ad altri undici cittadini italiani deportati. La medaglia per Ferruccio, consegnata in Prefettura dal sindaco di Bologna Virginio Merola nella Giornata della Memoria, è stata ritirata dalla nipote Teresa, figlia del cantautore.

 

Da sinistra, Ester, Francesco e Ferruccio Guccini

Guccini, suo padre tornò dopo il 1945 ed è vissuto per quasi ottant’anni, la sua età adesso. Non le ha mai parlato di quell’esperienza?

«No, credo che abbia visto cose talmente disumane da non poter essere raccontate». Però ha lasciato tracce, magari non verbali. «Sì, tracce purtroppo perdute nei tanti traslochi della mia famiglia. Come un piccolo quaderno della prigionia. In queste pagine, con una grafia minuta e precisa, nel campo aveva annotato delle ricette. E sa perché? Perché non voleva perdere il ricordo dei sapori, dei profumi buoni».

 

Con lui, nel campo, c’erano anche Gianrico Tedeschi e Giovannino Guareschi.

«Sì, anche se non si sono mai incontrati con papà. So che con altri lui scambiava ricordi di cibo. Uno diceva: “Sai, una volta ho mangiato quei tortellini…”, e tutti gli altri lo incoraggiavano con “Dai, racconta, che sapore avevano?”».

 

Perché era restio ai riconoscimenti ufficiali?

«Gli facevano piacere, certo, ma non se ne vantava. Pensi che quando lo hanno fatto Cavaliere della Repubblica, mia madre gongolava mentre lui si schermiva. Quando poi è morto, mamma ha fatto incidere il titolo di Cavaliere sulla sua lapide. Mi sono messo le mani nei capelli e le ho detto: “Mamma, ma guarda che ora lui si rivolta nella tomba”».

 

Ferruccio non parlava volentieri della prigionia, però quel periodo lo ha trasformato. Quali segni ha visto?

«Si vedeva anche da piccoli dettagli, solo in apparenza insignificanti. Pensi che una volta sono andato a suonare in Germania e prima che partissi lui mi disse: “Mi raccomando, quando sei lì assaggia il cavolo rapa, è buonissimo”. E io non capii subito. Dire che il cavolo rapa è una specialità mi sembrò un’affermazione assurda, ma poi ho colto il vero senso di quelle parole».

 

Perché anche il cavolo rapa, se mangiato in prigionia, diventa buono, quantomeno perché toglie la fame.

«Cercavo di scorgere in lui ogni traccia di sofferenza, ma Ferruccio era bravissimo a dissimulare, a non trasformare quella tragedia in retorica. Quella era un’altra generazione. Per esempio, per tutta la vita si è rivolto a sua madre dandole del “voi”».

 

Lei ha intitolato «Van Loon» la canzone dedicata a lui. Perché?

«Hendrik Willem van Loon è stato una specie di Piero Angela olandese degli anni Trenta. Un divulgatore, uno di quelli che piacevano a papà. E sa perché? Perché mio padre era nato a Pavana, provincia pistoiese, figlio di un uomo durissimo che voleva metterlo a lavorare al mulino fin da ragazzo. Ma papà voleva studiare, era un giovane curioso. E per fortuna sua madre riuscì a iscriverlo almeno a una scuola professionale, indirizzo perito elettromeccanico».

 

Ma a Ferruccio non bastava, vero?

«No, perché lui amava la letteratura, l’arte, le materie umanistiche. Si era comprato un’enciclopedia di grossi volumi, leggeva i compendi storici del Barbagallo. Si sforzava di parlare in italiano, aveva delle velleità che io oggi comprendo e che ammiro. E persino quando partì per la guerra meritava un grado superiore che però non richiese mai. Era fatto così, papà».

 

Articolo di Roberta Scorranese 

dal Corriere della Sera del 28/01/2021