FRANCESCO GUCCINI: “SONO IL CANTORE DEL FORSE E DEL MA”

PAVANA (Pistoia). Gli indigeni individuano subito il forestiero. “Lei è qui per Guccini”. Un’affermazione, non una domanda. Sì, effettivamente ma anche affettivamente sono qui per Guccini. “Oggi è fuori”. Lo so, l’appuntamento è per domani mattina. Ma volevo farmi un’idea di Pavana, mai vista prima e sempre al centro delle canzoni e dei libri di Guccini. Anche quandotrattavano d’altro. Di campi di sterminio, di aborti clandestini, di locomotive, di eskimo, di bambine portoghesi, di piazza Alimonda, di Bovary e Cyrano, di osterie e pensionati. Pavana al centro perché qui nasce la voglia di raccontare, sentendo gli altri raccontare, unita a una saggezza contadina che è al tempo stesso cultura e vaccinazione contro ogni certezza, fusione delle due culture evocate da Gramsci (citate durante l’intervista, che poi è una chiacchierata).

La casa di Guccini è antica, stracolma di libri come immaginavo, un po’ gozzaniana all’esterno: i cespugli di ortensie, il pergolato di uva americana, il battente di ferro sull’uscio, come una volta. Ci sistemiamo in cucina. Il tavolo è molto grande e per metà occupato da altri libri. E da un libro si incomincia, l’ultimo che ha scritto per Giunti. Tralummescuro è il titolo. Non è un medicinale, e d’altra parte Guccini non ha mai cercato titoli facili. Croniche epafaniche è stato il primo, nell’ottobre 1989, ed erano storie, vite, animali e boschi di Pavana. E lì è tornato trent’anni dopo.

“Mi sembrava di dover chiudere un cerchio. Il titolo me l’ha fornito un amico poeta, Paolo Iacuzzi di Pistoia. Si può tradurre “all’imbrunire”, o “al crepuscolo”. È quando la luce se ne sta andando ma non è ancora buio. Negli ultimi quarant’anni l’Appennino è morto, e Pavana sta morendo. Un secolo fa aveva settemila abitanti, ora saremo 1.300 contando tutte le frazioni, 1.400 al massimo. Quand’ero piccolo funzionavano tre mulini, c’erano cinque piste da ballo, tre sarti, due calzolai, un cinema. Non ci sono più. Però ci sono due Pro Loco, mai capito perché. Se apro quella finestra vedo una fila di case tutte vuote.

Questo era un paese che si estendeva su 77 chilometri quadrati, questa era la valle dei tre fiumi, i due Limentra e il Reno, d’estate venivano per le vacanze da Bologna, da Ferrara, qualcuno anche dalla Francia dov’era emigrato. Vacanze era una parola presa alla lettera, nel senso etimologico di vacare. Stare tranquilli, respirare aria buona, il paese è a 500 metri, passeggiare nei boschi o andare al fiume. I sentieri nei boschi sono ostruiti dai rovi, nessuno cura più i castagneti.

E le vacanze sono diventate un tour de force, i turisti non sono viaggiatori, sono voraci, vogliono vedere tutta Venezia, o Firenze, in un pomeriggio, o tutta la Francia in una settimana, è un continuo e frenetico movimento che non ha il sapore della vacanza. Ma ormai è così: i miei nonni erano andati in viaggio di nozze a Bologna, i miei genitori a Firenze. La figlia di mio cugino è andata in Messico, la mia fisioterapista alle Hawaii”.

 

Tra gli aggettivi più usati, per il libro, ci sarà crepuscolare.

“È inevitabile. Come un richiamo a Spoon River. Il paese invecchia e noi pure. Qualcuno è morto, qualcuno sta male, qualche altro come me è in pista di lancio. Il sangue fresco viene da lontano: l’ultimo torneo di briscola, al bar, l’hanno vinto due marocchini. Ma il primo premio era un prosciutto e non l’hanno ritirato”.

 

Restiamo al libro. Come in coda al primo, c’è un glossario che traduce dal pavanese. Hai anticipato Camilleri nell’uso sistematico del dialetto misto all’italiano.

“Ma scrivere non è un inseguimento o una gara a chi arriva prima. Allora dobbiamo ricordare il Meneghello di Libera nos a malo e il sempre venerabile ingegner Gadda. Uso il dialetto per antica abitudine, perché ha parole molto vive”.

 

Non vorrei sembrare irrispettoso o saccente, ma mi pare che il pavanese si parli solo a Pavana. A Porretta Terme, poco più in giù, predomina l’emiliano, a Sambuca, poco più su, il toscano.

Francesco Guccini con Gianni Mura (Foto tratta dalla rivista “Il Venerdì”)

“Non è esatto. Qui si gioca con le carte piacentine, ma qualcosa di molto simile al nostro dialetto si parla verso Castiglion de’ Pepoli e a Lizzano in Belvedere, dov’era nato ed è sepolto Enzo Biagi. Le nostre bisnonne erano parenti. E comunque il dialetto, modenese però, l’ho usato anche in Vacca d’un cane, titolo che m’ha portato una bacchettata di Giorgio Bocca sull’Espresso”.

 

Questa non la sapevo.

“Ha preso il titolo e l’ha messo insieme a uno di Claudio Bisio, Quella vacca di Nonna Papera per dire che i giovani autori puntavano sullo scurrile nei titoli per vendere. Allora ho preso carta e penna e gli ho scritto: egregio dottor Bocca, il mio romanzo si svolge a Modena, dove l’esclamazione più usata è, appunto, ‘vacca d’un cane’. Io ho letto molti suoi libri, alcuni mi sono piaciuti altri meno, ma senza fermarmi al titolo”.

 

E lui?

“Mi ha risposto scusandosi e dicendo che l’avrebbe letto. Poi non so se l’ha fatto, ma ho apprezzato. Come apprezzerei che fossero critici letterari a giudicare i miei libri, anche stroncandoli, perché no?, e non, com’è accaduto fin qui, critici musicali. Perché c’è una differenza tra cantare e scrivere. Io ho sempre voluto fare lo scrittore. Quando ero in quinta elementare e mio padre glielo disse, il maestro Paltrinieri rise e commentò: poverino, scrive proprio da cane. Il primo libro che ho letto era Pinocchio, e poi tanto Salgari, che pronunciavamo Sàlgari e non abbiamo mai smesso di sbagliare accento. Verne un po’ meno, poi tanti americani, un po’ meno i russi e i tedeschi, abbastanza gli spagnoli. Leggevo in auto, in treno, alla scrivania, sul tavolo di cucina. Leggevo per arrivare a scrivere. Quando vedo chiudere una libreria e anche un’edicola è una fitta al cuore. Per me la lettura è come il maiale, animale che stimo tantissimo. Il maiale più lo nutri bene più sarà generoso e profumato con le sue carni. Più tu ti nutri bene con la lettura più possibilità hai di diventare un uomo migliore. Anche i miei due anni da giornalista alla Gazzetta di Modena li avevo cominciati nell’ottica di scrivere libri. Tutti i giornalisti importanti scrivono libri. Io comincio dal fondo, divento importante e poi scrivo libri, questo era il succo”.

 

E invece?

“Dodici ore di lavoro al giorno, niente settimana corta, niente ferie, 20 mila lire al mese e la metà la davo in casa. Il mio primo pezzo, pezzettino, riscritto tre volte su ordine del capocronista, fu sui 50 anni di velo di suor Eustachia Maria Peloso. Poi ero passato alla cronaca giudiziaria, mi piaceva perché sentivo tante storie di vita. Ma quello che ricordo con maggior vergogna è un’intervista a Domenico Modugno, che aveva vinto a Sanremo. La pensai e scrissi da genio incompreso prendendomi per un precursore, invece ero solo un giovane coglione. Povero Mimmo, non meritava un’intervista così”.

 

Ci sono canzoni che ti vergogni di aver scritto?

“No, a tutte voglio piuttosto bene, credo di essere stato onesto e di non aver cercato mai di passare per quello che non ero. E molti mi riconoscono questa onestà, a cominciare da quelli che vengono qui o scrivono che devo continuare a cantare, che per loro rappresento questo e quello. Grazie, ma ho i miei anni, 80 il prossimo giugno, e i miei acciacchi.Ho cantato per più di sessant’anni. Non posso più stare in piedi due ore e mezzo a cantare, dialogare col pubblico, con la giusta tensione perché non puoi salire su un palco davanti a migliaia di persone comese fossi nel giardino di casa. Posso dirti che ci sono canzoni che piacciono moltissimo al pubblico, La locomotiva e Dio è morto, e che non rinnego, ma mi piacciono di più Van Loon, Amerigo, Bisanzio. Mio padre leggeva Van Loon, un olandese tipo Piero Angela, grande divulgatore di storiae geografia. L’ho scritta pensando a mio padre, che non è mai venuto a un mio concerto, ma appena cominciavo a cantarla mi veniva un nodo in gola. Forse il mio primo libro, su Pavana, gli è piaciuto più delle mie canzoni. Mia madre, quando le dicevo che la sera prima avevo diecimila spettatori, replicava: ‘Si vede che non avevano niente di meglio da fare’. Non mi hanno mai spinto né ostacolato”.

 

Hai rifiutato tutte le etichette e credo che tu stia lottando contro ilmonumento che tre o quattro generazioni ti vogliono erigere in vita. Sbaglio?

“Lasciamo stare. Sono etichettato cantautore, parola stramba come camelopardo. I Romani non avevano mai visto una giraffa, era alta come un cammello ma senza gobba, e maculata come un leopardo. Cantautore non significa nulla, non è come chansonnier. I testi delle canzoni nei paesi anglofoni si chiamano lyrics. Io non mi sono mai sentito musicista, avrò anche buttato giù qualche musica decente ma veniva prima il testo, le parole. Ho raccontato storie, mie e non mie. Mi considero il cantore del forse, del dubbio, del ma. Non sopporto chi crede di avere la verità in tasca e te la vuole imporre. C’è molto di mio in Libera nos Domine. Ho scritto canzoni esistenziali, non all’ombra di una bandiera ma solo delle mie idee. Sono agnostico e piaccio molto ai cattolici. Il vescovo di Bologna, monsignor Zuppi, da poco nominato cardinale, è gucciniano convinto. Con lui sono stato ad Auschwitz, e mi sono rotto unbraccio, e sempre lui ha combinato un incontro con l’argentino vestito di bianco, come dice Carlìn Petrini. L’ho preso in contropiede recitandogli a memoria le prime due sestine di Martín Fierro. Questo papa mi piace”.

 

E questo clima, in generale?

“Agghiacciante. Troppa volgarità,  troppa prepotenza, troppa  cattiveria. Troppe bocche che parlano e poche menti che pensano. Questo è  Victor Hugo, I miserabili, ma è molto attuale”.

 

Per chiudere, progetti di scrittura?

“Un giallo con Loriano Macchiavelli, ci stiamo lavorando. Rispolveriamo il maresciallo Santovito perché i forestali sono diventati carabinieri e dunque Poiana saluta e se ne va. Di mio, sto pensando a una storia picaresca, un viaggio a dorso di mulo da Pavana al mare”.

 

 

Intervista di Gianni Mura pubblicata sul “Venerdì” del 13 settembre 2019