FRANCESCO GUCCINI: “NON PARAGONIAMO LA LIBERAZIONE ALLA FINE DEL LOCKDOWN”

«Al 25 aprile del ’45 arrivammo dopo averci messo vent’anni a liberarci da quello che aveva chiesto i pieni poteri e tornare a vederci, ridere, ballare. Fu una Liberazione molto più profonda, non si può paragonare a due mesi in casa». Il suo personale ritiro Francesco Guccini l’ha iniziato ormai da anni, nella casa di Pavana, nell’Appennino tosco emiliano, dove vive con la moglie. Qui festeggerà anche il 25 aprile, dopo due mesi di lockdown che non ne hanno stravolto le abitudini. Le città deserte ora somigliano alla sua montagna solitaria e dai ritmi lenti, raccontata nell’ultimo libro “Tralummescuro”. «Ma non m’illudo, torneremo uguali a prima, la gente impara poco da quel che le capita», dice il Maestrone. Che a giugno compirà 80 anni, «ma in questa crisi non fateci sentire dei sacrificabili».

Guccini, per affrontare la quarantena bisogna imparare dalla gente di montagna?

«Questa è una fase, ma la gente torna a voler il mare, le serate, il divertimento. A me la vita non è cambiata molto. Il paese era morto prima, morto rimane: sto scrivendo un nuovo libro con Macchiavelli, ascolto audiolibri, mi faccio portare da mangiare dal mio ristorante abituale, non andarci è una delle cose che mi mancano. In fondo i modi per passare il tempo sono tanti, ma dipende dalle abitudini che avevi prima: se non hai mai letto e provi a farlo in quarantena, butti il romanzo dopo due pagine. Anche in questo la gente non cambia».
 
Non ci sarà un’Italia diversa, dopo il virus, insomma…

«Non credo proprio, servirà un po’ di tempo, non ci sarà il liberi tutti immediato, ma poi torneremo ad essere quelli di prima. Il popolo italiano ha un carattere forse anarchico ma in questo caso sta seguendo abbastanza bene le regole che sono state date, ma più che per senso di responsabilità lo fa per la paura. Ora si parla di braccialetti per tracciare gli spostamenti, mi sembrano una cosa da carcerati, ma vedremo».
 
Alla vigilia del 25 aprile, tra i tanti paragoni fatti c’è quello tra guerra ed epidemia, fine quarantena e Liberazione: ha senso?

«Mi sembrano due situazioni diverse. Allora la Liberazione fu molto più profonda, uno strappo enorme. Non solo per numero di morti, la guerra e le privazioni che aveva portato erano un’altra cosa. Allora si lottava per campare, per un tozzo di pane, ora si litiga al supermercato per il lievito per farsi la pizza. Magari ora non stai vedendo amici o parenti da un mese, allora erano passati anni, chi si era allontanato era stato a combattere e non chiuso in casa. Nel ’45 il 25 aprile rappresentò una gioia più intensa, un sollievo enorme, e per questo la prima cosa che volevi fare era ballare. Quando sento il termine “pieni poteri”, di cui parlò Salvini un anno fa e che ha preso ora Orban in Ungheria, ricordo che in Italia per liberarci di uno così ci abbiamo messo vent’anni».
 
Cosa risponde a La Russa, che ha proposto di pacificare il dibattito sul 25 aprile rendendolo giornata di tutte le vittime di guerra e di quelle del coronavirus?

«Che questo senso di pacificazione dovrebbe chiederlo ai morti per mano nazifascista, dovrebbe domandare a Marzabotto se hanno voglia di essere pacificati. E mi pare che la risposta sia no».
 
Lei, nato nel ’40, si è sentito mancare di rispetto da chi ha minimizzato sul virus dicendo “tanto muoiono solo gli anziani”?

«Io faccio parte di quel mucchio lì e a 80 anni di far festa per il compleanno non hai mai voglia, ma spero nessuno la pensi davvero così, sarebbe un po’ razzista dire che siamo una generazione di sacrificabili. E poi s’è dimostrato che mica è vero, che il virus alla carta d’identità non guarda».
 
Nella memoria resteranno molte immagini forti di questo periodo. Quali la hanno colpita di più?

«La fila di camion militari per trasportare le bare fuori da Bergamo e la fossa comune a New York dove venivano seppelliti i clochard e i corpi non reclamati. Immagini difficili da pensare in tempo di pace, ma se quella del bergamasco aveva una sua ragione razionale, in un paese in cui nonostante le difficoltà la sanità funziona e tutti possono curarsi; quella americana è una scena agghiacciante ci racconta di un paese durissimo, in cui può sperare solo chi ha la carta di credito, altrimenti sei lasciato solo». 
 
Chi già si sentiva solo prima, poi, in questa quarantena lo è stato ancora di più…

«La salute mentale, non solo fisica, è un tema che deve essere preso in grande considerazione. Oggi mia cognata mi ha chiamato da un paesino della Liguria, ha detto che un vicino s’è sparato, non ha retto alla depressione. Spero siano pochissimi i casi, ma qualcuno in questa situazione può andare fuori di testa». 

 

Articolo di Luca Bortolotti tratto da La Repubblica – Edizione di Bologna del 21/04/2020