Signora Bovary


IL DISCO

Registrato alla Cetra Art Recording di Milano verso la fine del 1986 e pubblicato nel 1987Signora Bovary è il tredicesimo album di Francesco Guccini.

Il titolo riprende quello del celebre romanzo Madame Bovary di Gustave Flaubert.

 

Il disco lo descrive lo stesso Guccini in un box di Tv Sorrisi e Canzoni del 21 marzo 1987, dal titolo “Vi racconto il mio album”:

«Scirocco» - È un vento che si fa sentire raramente a Bologna, un vento caldo e strano che quando soffia la fa apparire diversa, surrèale. La storia d'amore che, non si conclude è un episodio incorniciato da questo vento insolito, come insolita è la struttura musicale, la milonga che è una parente del tango.

«Signora Bovary» - È la prima canzone scritta per questo disco, osservando la gente che cammina in un pomeriggio semifestivo, fino a chiedermi cosa c'è nel fondo di quel pomeriggio e della notte seguente. Cosa c'è in fondo in fondo...

«Van Loon» - Era uno scrittore di divulgazione storica e geografica che si trovava nelle biblioteche piccolo borghesi degli Anni '50. Ho usato il suo nome come simbolo di una generazione, quella di mio padre, che allora ovviamente non capivo. Ma col passare del tempo ci si accorge che i valori cambiano.

«Culodritto» - Dalle mie parti di una persona stizzita si dice che «va via col culo dritto». Lo fanno spesso anche i bambini. È dedicata a mia figlia, ma spero di non essere caduto anch'io nella retorica.

«Keaton» - È la vicenda di un pianista di jazz che non sorride mai come il famoso attore del muto. L'idea è dell'amico Claudio Lolli: gli ho chiesto di rimaneggiarla un po' per sentirla più mia.

«Le piogge d'aprile» - Quando ci si accorge che certi momenti d'entusiasmo sono finiti, vien voglia di fare un po' come quegli acquazzoni di aprile che quando arrivano sembra che cambiano tutto...

«Canzone di notte n. 3» - È la terza di queste ballate a commento (ne ho già fatte due in album precedenti). È la più tradizionale delle mie canzoni, forse la faccia ironica delle piogge.

Copertina degli spartiti musicali di "Signora Bovary"

Hanno suonato in Signora Bovary: Ellade Bandini (batteria), Juan Carlos «Flaco» Biondini (chitarre), Antonio Marangolo (sax), Juan Josè Mosa

lini (bandoneon in Scirocco), Ares Tavolazzi (basso e contrabbasso), Vince Tempera (pianoforte e tastiere).

La produzione è di Renzo Fantini, mentre la programmazione delle tastiere elettroniche di Piero Cairo.

L'album è stato distribuito in formato LP, MC e CD.

Gli spartiti di Signora Bovary sono stati pubblicati da Edizioni Musicali La Voce del Padrone.

 

CURIOSITA'

La copertina nasce da un'idea di Renzo Fantini e Francesco Guccini.

La canzone Keaton era stata scritta da Claudio Lolli, che aveva trovato difficoltà nel pubblicare una traccia così lunga. Guccini si innamorò immediatamente del testo e decise di inserirla nel proprio album che di lì a poco sarebbe stato pubblicato, apportando alcune modifiche testuali così da co-firmarla.

Culodritto è dedicata a Teresa, la figlia di Guccini, allora bambina. È un modo di dire modenese, “andar via a culodritto”, che si usa quando i bimbi se ne vanno, indispettiti o risentiti per qualcosa.

RECENSIONI

Foto dell'articolo di "Famiglia Cristiana" (1987)

Da “Famiglia Cristiana” del 28 gennaio 1987, un articolo di Massimo Bernardini:

Con sette freschissime poesie, il patriarca della canzone d'autore ritorna puntualmente in mezzo al suo pubblico. Un albero solido, che dà frutti maturi al tempo giusto e ancora una sfida all'indice d'ascolto. […] Signora Bovary: la novità più grossa, in queste sette canzoni nuove di zecca, è che si tratta, ancora una volta, e probabilmente con maggior lucidità, delle ultime prove di un disco da prima linea. Certo la prima linea della poesia, della fedeltà ad una canzone d'autore che, frettolosamente e distrattamente, era stata data per morta, o meglio, che il tele brusio dei tempi ci suggeriva non più attuale. E, intanto, Guccini andava più a fondo, oltre il brillante parlarsi addosso generazionale, fra il serio e il faceto, che l'ha contraddistinto in questi anni, oltre l'epica familiare e montanara, l'amarezza spaesata per i tempi mutati, le insolite metafore narrative. A tutto questo, oggi, sembra essersi sostituito un suo sentire universale, metafisica diremmo, in cui l'orizzonte individuale, esistenziale, nonostante le tentazioni di un inferno casalingo alla Madame Bovary, è parte di un più vasto sentire e riflettere. E come se oggi, Francesco ci volesse dire: è tempo di riprendere in mano, con la raggiunta lucida maturità, il senso primo che ci aveva fatto muovere, interrogare, agire; nel suo caso fare canzoni. Così le canzoni più immediatamente individuabili come “Culodritto”, dedicata, con ruvida paternità, alla figlia Teresa, o “Scirocco”, bilancio di una intricata storia amorosa, vanno sorprendentemente al nocciolo della questione: il destino ancor tutto da giocare di una vita che cresce davanti allo sguardo stupito di un padre, il desiderio che la propria o altrui storia venga spazzata da un vento di verità che è quasi sempre inafferrabile. Vento oppure pioggia, come quelle “Pioggie d'aprile”, titolo di un'altra, lucidissima canzone «che in mezz'ora lavavano un'anima o una strada, e lucidavano in fretta un pensiero o un cortile bucando la terra dura e nuova come una spada». In questo nuovo Guccini c'è voglia di slancio e di rinnovamento, di ridar senso alle parole e ai gesti. Così, in collaborazione con l'intelligente, dimenticato, ma ancor vivo e vegeto Claudio Lolli, Francesco ricorre al metaforico “Keaton”, poeta e pianista dei tempi sinceri, che nella lunghissima canzone di cui è protagonista vive due possibili conclusioni del suo destino: l'uno di dimenticato, ormai inutile poeta; l'altro di infelice, "vinto" dalla normalità. Ma non sono che alcuni assaggi di un disco poeticamente molto denso e musicalmente molto terso, svincolato dai venti dominanti che inchiodando poi un grappolo di buone canzoni ai suoni di moda. Frutto, invece, in piena scioltezza, della band che accompagna abitualmente Guccini in concerto: Ellade Bandini, batteria; Ares Tavolazzi, basso; Vince Tempera, tastiere; Juan Carlos e "Flaco" Biondini, chitarre; con l'aggiunta di Antonio Marangolo, ai sassofoni e con la chicca di uno struggente Juan José Mosalini al bandoneon. La produzione di Renzo Fantini, infine, suggella il disco con un'inedita essenzialità.

 

 

Da “L’Espresso” dell’8 marzo 1987:

Foto tratta dall'articolo della rivista "L'Espresso" (1987)

"Van Loon", in una delle sette canzoni che compaiono nel mio ultimo ellepì, "Signora Bovary". Questo Van Loon altri non è se non il divulgatore, di storia e geografia, di cui Umberto Eco ha recentemente parlato in una delle sue "Bustine di Minerva", definendo lo "divertente e bizzarro, ma anche superficiale". Tutto vero. Ma, per me, Van Loon è anche quell'uomo che ha insegnato a mio padre, ai nostri padri, tutte quelle conoscenze di cui loro andavano fieri. E dunque un simbolo della generazione precedente la mia, e proprio per questo lo descrivo così: "Van Loon, uomo destinato direi da sempre ad un lavoro più forte, che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare, sembrò quasi baciato da una buona sorte quando dovette andare". Ecco, quel" direi", così familiarmente colloquiale, si potrebbe tranquillamente eliminare, senza modificare per nulla il significato della frase: ma a me serviva per farlo allitterare con "destinato" e "da sempre", per creare quel flusso “de-di-da” capace di rendere musicale l'intero periodo».

 

 

Da “Tv Sorrisi e Canzoni” del 21 marzo 1987:

Francesco, il tuo è sempre un bello spettacolo di coerenza... Ma ti attendevi il boom di quest'ultimo album?

«Certo è partito molto bene. Ma devo dirti che il mio livello di popolarità è stato sempre piuttosto costante, e non si tratta solo di fedelissimi della mia età. Ai concerti trovo un sacco di giovani che mi chiedono anche le canzoni dei primi tempi. E la cosa mi fa molto piacere: vuol dire che quelle canzoni hanno tenuto bene...».

Ma oltre alla coerenza in questa «Signora Bovary» c'è anche la tua inquietudine...

«Certo, sono un montanaro trapiantato in città e anche le mie inquietudini ne risentono. Io credo che in me ''ci siano due forze contrastanti: una centrifuga, che mi spinge al sogno e all'avventura, e una centripeta, che mi riporta sempre lì alle mie radici di montagna».

Foto tratta dall'articolo della rivista "Tv Sorrisi e Canzoni (1987)

Perché tante figure familiari in quest'ultimo lavoro?

«Beh, faccio un disco a 47 anni. Ci penso, provo a raddoppiarli: 94. Speriamo! Ma mi sembra eccessivo... Ho già mangiato tanta torta e sento il bisogno di riflettere: rivalutare certe figure del passato (mio padre) o confrontarmi con le nuove (mia figlia). E in certe canzoni c'è quello che io chiamo l'elemento sentimentale: se cerchi di mettercelo sinceramente, non in maniera furbetta, sentì che parli più direttamente alla gente». Il ricordo è l'elemento dominante anche in “Scirocco” o in “Keaton”.

Ma non c'è il rischio di rimestare troppo nel passato?

«Attenzione che la malinconia non è pessimismo: è solo il gusto di tornare a rivivere certi momenti, a ripensare certe esperienze. Flaco, il mio chitarrista argentino, è stato il primo a scoprire certe analogie tra le atmosfere del tango e quelle delle mie canzonì..».

Ci sono solo ripensamenti o anche rimpianti?

«Più che altro mi chiedo: quali cose mi rimangono da fare? Ecco, ho la sensazione che le prime volte siano ormai passate: Nella canzone "Culodritto" lo dico chiaramente: a mia figlia invidio l'età delle scoperte...».

Però come cantautore continui a fare esperienze nuove, come il concerto di lunedì 9 marzo all'Olympia di Parigi. Cosa ne pensi?

«Un'esperienza che mi ha procurato tanta ansia prima di salire sul palco... io in francese non so spiccicare parola. Comunque mi sono reso conto che c'è un grande interesse per la nostra canzone d'autore. È buffo pensare che siamo ammirati all'estero mentre qui siamo invasi dai dischi stranieri!» .

 

I TESTI - LATO A

 

Ricordi le strade erano piene di quel lucido scirocco che trasforma la realtà abusata e la rende irreale, sembravano alzarsi le torri in un largo gesto barocco e in via dei Giudei volavan velieri come in un porto canale. Tu dietro al vetro di un bar impersonale, seduto a un tavolo da poeta francese, con la tua solita faccia aperta ai dubbi e un po' di rosso routine dentro al bicchiere: pensai di entrare per stare assieme a bere e a chiaccherare di nubi...

Ma lei arrivò affrettata danzando nella rosa di un abito di percalle che le fasciava i fianchi e cominciò a parlare ed ordinò qualcosa, mentre nel cielo rinnovato correvano le nubi a branchi e le lacrime si aggiunsero al latte di quel tè e le mani disegnavano sogni e certezze, ma io sapevo come ti sentivi schiacciato fra lei e quell' altra che non sapevi lasciare, tra i tuoi due figli e l' una e l' altra morale come sembravi inchiodato...

Lei si alzò con un gesto finale, poi andò via senza voltarsi indietro mentre quel vento la riempiva di ricordi impossibili, di confusione e immagini.

Lui restò come chi non sa proprio cosa fare cercando ancora chissà quale soluzione, ma è meglio poi un giorno solo da ricordare che ricadere in una nuova realtà sempre identica...

Ora non so davvero dove lei sia finita, se ha partorito un figlio o come inventa le sere, lui abita da solo e divide la vita tra il lavoro, versi inutili e la routine d' un bicchiere: soffiasse davvero quel vento di scirocco e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare dietro alla faccia abusata delle cose, nei labirinti oscuri della case, dietro allo specchio segreto d' ogni viso, dentro di noi...

Ma che cosa c'è in fondo a quest' oggi di mezza festa e di quasi male, di coppie che passano sfilacciate come garze stese contro il secco cielo autunnale, di gente che si frantuma in un fiato senza soffrire, senza capire e i tuoi pensieri sono solo uno iato tra addormentarsi e morire...

Ma che cosa c'è in fondo a questa notte, quando l' ora del lupo guaisce e il nuovo giorno non arriva mai, mai e il buio è un fischio lontano che non finisce di minuti lunghi come il sudore, di ore che tagliano come falci e i tuoi pensieri solo un cane in chiesa che tutti prendono a calci...

Ma cosa c'è, cosa c'è... atrii a piastrelle di stazioni secondarie, strade più strade di avventure solitarie, clown nella notte, valigie vuote, piene di trucchi per tragedie immaginarie...

...telecomandi per i quotidiani inferni, battute argute di architetti postmoderni, amanti andate, piaceri a rate, pallottolieri per contare estati e inverni...

Ma che cosa c'è proprio in fondo in fondo, quando bene o male faremo due conti, e i giorni goccioleranno come i rubinetti nel buio e diremo "...un momento, aspetti..." per non essere mai pronti, signora Bovary, coraggio, pure tra gli assassini e gli avventurieri, in fondo a quest' oggi c'è ancora la notte, in fondo alla notte c'è ancora, c'è ancora...

Van Loon, uomo destinato direi da sempre ad un lavoro più forte che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare sembrò quasi baciato da una buona sorte quando dovette andare; sembra però che non sia mai entrato nella storia, ma sono cose che si sanno sempre dopo, d' altra parte nessuno ha mai chiesto di scegliere neanche all' aquila o al topo; poi un certo giorno timbra tutto un avvenire od una guerra spacca come una sassata, ma ho visto a volte che anche un topo sa ruggire ed anche un' aquila precipitata...

Quanti anni, giorno per giorno, dobbiamo vivere con uno per capire cosa gli nasca in testa o cosa voglia o chi è, turisti del vuoto, esploratori di nessuno che non sia io o me; Van Loon viveva e io lo credevo morto o, peggio, inutile, solo per la distanza fra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d' allora, la mia ignoranza: che ne sapevo quanto avesse navigato con il coraggio di un Caboto fra le schiume di ogni suo giorno e che uno squalo è diventato, giorno per giorno, pesce di fiume...

Van Loon, Van Loon, che cosa porti dentro, quando tace la mente e la stagione si dà pace? Insegui un' ombra o quella stessa pace l' hai in te? Vorrei sapere che cosa vedi quando guardi attorno, lontani panorami o questo giorno è già abbastanza, è come un nuovo dono per te?

Van Loon, Van Loon, a cosa pensi in questo settembrino nebbieggiare alto che macchia l' Appennino, ora che hai tanto tempo per pensare, ma a chi? Vai, vecchio, vai, non temere, che avrà una sua ragione ognuno ed una giustificazione, anche se quale non sapremo mai, mai!

Ora Van Loon si sta preparando piano al suo ultimo viaggio, i bagagli già pronti da tempo, come ogni uomo prudente, o meglio, il bagaglio, quello consueto, di un semplice o un saggio, cioè poco o niente e andrà davvero in un suo luogo o una sua storia con tutti i libri che la vita gli ha proibito, con vecchi amici di cui ha perso la memoria, con l'infinito, dove anche su quei monti nostri è sempre estate, ma se uno vuole quell' inverno senza affanni che scricchiolava in gelo sotto le chiodate scarpe di un tempo, dei suoi diciottanni, dei suoi diciottanni...

Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti, ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare...

Culodritto, che vai via sicura, trasformando dal vivo cromosomi corsari di longobardi, di celti e romani dell' antica pianura, di montanari, reginetta dei telecomandi, di gnosi assolute che asserisci e domandi, di sospetto e di fede nel mondo curioso dei grandi,

anche se non avrai le mie risse terrose di campi, cortile e di strade e non saprai che sapore ha il sapore dell' uva rubato a un filare, presto ti accorgerai com'è facile farsi un' inutile software di scienza e vedrai che confuso problema è adoprare la propria esperienza... Culodritto, cosa vuoi che ti dica? Solo che costa sempre fatica e che il vivere è sempre quello, ma è storia antica, Culodritto...

dammi ancora la mano, anche se quello stringerla è solo un pretesto per sentire quella tua fiducia totale che nessuno mi ha dato o mi ha mai chiesto; vola, vola tu, dov' io vorrei volare verso un mondo dove è ancora tutto da fare e dove è ancora tutto, o quasi tutto... vola, vola tu, dov' io vorrei volare verso un mondo dove è ancora tutto da fare e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare...

I TESTI - LATO B

 

Lo chiamavamo Keaton quel pianista, naturalmente perchè non sorrideva mai, mentre noi ci ammazzavamo di risate a vederlo là, come un parafulmine, dritto contro un cielo di guai; guai di tasca a violoncello, guai d' amore, guai da vita distratta e disperata che ricamavano dentro al suo stupore una tela affascinante, ma un po' troppo delicata...

Keaton si presentò come un jazzista, appassionato e puro, in stile Rete Tre, coi pregiudizi di chi si sente artista perchè non faceva soldi, lui, con le canzoni, come me, ma non mi accompagnava poi malvolentieri, eravamo due grandi acrobati della malinconia e poi, poi dobbiamo farne di mestieri noi che viviamo della nostra fantasia...

Parlavamo poi molto in quelle sere, in qualche bar, dopo il concerto, insonni e morti, di politica, ciclismo, storie vere e di come i "Weather Report" erano forti e di come era importante fra la gente non essere solo musica e parole e di come era importante che la gente non fosse una massa di persone sole...

Ah, Keaton, Keaton, che fine hai fatto, Keaton? Sei poi andato in malora, Keaton? Lo sai che ti sto venendo a cercare? Keaton, ah, Keaton, perchè stanotte, Keaton, proprio stanotte, Keaton, avrei bisogno di sentirti suonare...

S' illuminava poi come di colpo lungo l' effimero consueto di una sera, s' illuminava di una gioia grande quando si avvicinava a una tastiera e preferiva quelle un poco usate, quelle in cui tutti mettono le mani, quelle ingiallite dal tempo, un po' scordate dall' ignoranza e dalla passione degli umani...

E poi una volta abbiamo litigato per una donna prima sua e poi mia, lui coi suoi guai, io col mio quasi peccato, sconfitti entrambi dalla gran malinconia; ci siamo persi quasi senza una parola, ma tutti e due con più rabbia che rimpianto, come i bambini che si fan dispetti a scuola, come due vecchi che si sono amati tanto...

Poi ho provato a rintracciarlo dappertutto, chiedendo a più d' un dirigente supponente, telefonando all'Arci-caccia, all'Arci-tutto, ma di Keaton sembra non sia rimasto niente. Se se ne parla è nel ricordo di un momento, qualcuno dice che l' ha visto, ma lontano, e tutti, tutti con un gran sorriso spento come per dire: "Era un ragazzo troppo strano".

Ah, Keaton, Keaton, che fine hai fatto, Keaton? Se mi vedessi col mio trench stile Bogart, Keaton, sotto la pioggia che ti vengo a cercare... Keaton, ah, Keaton, perchè mi manca, Keaton, questa notte mi manca la tua voglia di star qui a suonare...

E finalmente un chissacchì non mi delude, forse, però non sa, probabilmente, è in una provincia lontana come una palude dai nostri discorsi di suonare fra la gente; una provincia come una sconfitta, meno che essere una minoranza dignitosa, e una palude è certo troppo fitta di voli di zanzara per suonarci qualche cosa....

Lo trovo e sembra che non sia più Keaton, anche se è contento di vedermi. "Sembrava facile toccarlo con un dito", dice, "ma il cielo ci ha voluto tutti fermi". E finalmente ride, ma ride tanto ed è ingrassato e giura troppo che non sta poi male, il jazz ormai se l' è dimenticato: ci son parole, tempi e ritmi anche dentro un ospedale...

E nel lasciarmi all' inizio della sera: "E' come", dice, "alla fine del cinema muto, c'è il sonoro, non serve una tastiera..." Ci salutiamo nel silenzio più assoluto... Ed esco fuori con i miei giornali e non ho voglia di ridere per niente, ho un treno che mi aspetta alla stazione, mi dà fastidio anche il rumore della gente...

Ah, Keaton, Keaton!

Keaton, quello vero, l' ultima volta che l' hanno visto passeggiava lungo le strade e per il vento di Roma durante le pause di un film con Franchi e Ingrassia. Aveva in corpo mille litri di alcool, la faccia la solita, senza allegria; si ubriacava ogni giorno con la troupe borgatara alla faccia della cirrosi epatica, perchè lui ci teneva al suo pubblico, più che al suo fegato, e gli elettricisti sono gente simpatica; gli urlavano infatti "anvedi s'è forte 'sto Keaton!", bevendo il bianco misterioso dei colli di Roma o quello forte del sud che fa assaggiare l' infinito a tutta la gente di bocca buona...

Ma dove sono andate quelle piogge d'aprile che in mezz'ora lavavano un' anima o una strada e lucidavano in fretta un pensiero o un cortile bucando la terra dura e nuova come una spada? Ma dove quelle piogge in primavera quando dormivi supina, e se ti svegliavo ridevi, poi piano facevi ridere anche me con i tuoi giochi lievi?

Ma dove quelle estati senza fine, senza sapere la parola nostalgia, solo colore verde di ramarri e bambine e in bocca lo schioccare secco di epifania? Ma dove quelle stagioni smisurate quando ogni giorno figurava gli anni a venire e dove a ogni autunno quando finiva l' estate trovavi la voglia precisa di ripartire?

Che ci farai ora di questi giorni che canti, dei dubbi quasi doverosi che ti sono sorti dei momenti svuotati, ombre incalzanti di noi rimorti, che ci potrai fare di quelle energie finite, di tutte quelle frasi storiche da dopocena; consumato per sempre il tempo di sole e ferite, basta vivere appena, basta vivere appena...

E ora viviamo in questa stagione di mezzo, spaccata e offesa da giorni agonizzanti e disperati, lungo i quali anche i migliori si danno un prezzo e ti si seccano attorno i vecchi amori sciagurati, dove senza più storia giriamo il mondo ricercando soltanto un momento sincero, col desiderio inconscio di arrivare più in fondo per essere più vero...

Ma dove sono andate quelle piogge d'aprile? Io qui le aspetto come uno schiaffo improvviso, come un gesto, un urlo o un umore sottile fino ad esserne intriso, io chiedo che cadano ancora sul mio orizzonte angusto e avaro di queste voglie corsare, per darmi un'occasione ladra, un infinito o un ponte per ricominciare...

Esistenza, che stai qui di contrabbando, come un ladro sempre pronta per fuggire, ogni età chiude in sé i crismi dello sbando, sbaglio e intuire, coi suoi giochi di carambola e rimando, prendere e offrire, ma si muoia solo un po' di quando in quando, ma sia poco a poco che si va a morire...

Ogni giorno è un altro giorno regalato, ogni notte è un buco nero da riempire, ma per quanto non l' ho mai visto colmato, così per dire, resta solo l' urlo solito gridato, tentare e agire, ma si pianga solo un po' perchè è un peccato e si rida poi sul come andrà a finire...

Lo capisco se mi prendi per le mele, ma ci passo sopra, gioco e non mi arrendo, ogni giorno riapro i vetri e alzo le vele, se posso prendo, quando perdo non sto lì a mandar giù fiele e non mi svendo e poi perdere ogni tanto ci ha il suo miele e se dicono che vinco stan mentendo

perchè quelle poche volte che busso a bastoni, mi rispondono con spade o con denari, la ragione diamo e il vincere ai coglioni, oppure ai bari, resteremo sempre a un punto dai campioni (tredici è pari), ma si perda perchè siam tre volte buoni e si vinca solo in sogni straordinari...

Ah, quei sogni, ah, quelle forze del destino che chi conta spingerebbe a rinnegare, ci hanno detto di non fare più casino, non disturbare: canteremo solo in modo clandestino, senza vociare, poi ghignando ce ne andremo pian pianino per sederci lungo il fiume ad aspettare...

Quello che mi gira in testa questa notte son tornato, incerta amica, a riferire, noi immergenti, noi con fedi ed ossa rotte, lasciamo dire: ne abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire... Noi, se si muore solo un po' chi se ne fotte, ma sia molto tardi che si va a dormire...

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