Parnassius Guccinii


IL DISCO

Registrato e mixato alla Cetra Art Recording di Milano da Ezio De Rosa con l'assistenza di Alberto Boi nel 1993, Parnassius Guccinii è il sedicesimo album di Francesco Guccini.

Il nome, così come l'immagine di copertina, è quello della omonima farfalla presente nell'Appennino tosco-emiliano e descritta per la prima volta nel 1992 da Giovanni Sala che ha voluto dedicarla "per gratitudine" al cantautore modenese, suo cantante preferito.

Con Francesco Guccini alla voce hanno suonato, nel disco: Ellade Bandini (batteria e percussioni), Juan Carlos «Flaco» Biondini (chitarre e seconda voce in Luna Fortuna), Lele Chiodi (seconda voce in Acque), Gianni Coscia (fisarmonica), Lucio Fabbri (violino), Roberto Manuzzi (sax baritono, sax contralto, armonica), Antonio Marangolo (sax tenore, sax soprano), Ares Tavolazzi (contrabbasso, basso), Vince Tempera (piano, tastiere e organo Hammond).

Copertina degli spartiti musicali di "Parnassius Guccinii"

Gli arrangiamenti sono collettivi, mentre la programmazione tastiere è stata curata da Piero Cairo. Le invenzioni sonore sono state curate da Vince Tempera.

 

L'album è stato distribuito in formato LP (in edizione limitata), MC e CD.

Gli spartiti di Parnassius Guccinii sono stati pubblicati da Edizioni Musicali La Voce del Padrone.

CURIOSITA'

La copertina è stata curata da Raffaella Cavalieri. Foto di copertina: Raffaella Cavalieri e Gabriele Guerra.

Parnassius Guccinii è stato premiato con Premio Tenco.

Nel testo di Farewell sono citati dei versi ("The triangle tingles and the trumpet plays slow") della canzone Farewell Angelina di Bob Dylan.

 

RECENSIONI

Da “Avvenimenti” del 9 marzo 1994:

Foto dell'articolo della rivista "Avvenimenti" (1994)

Silvia non l'ho mai conosciuta. Conosco bene sua nipote la quale m'informa di come vanno le cose lì, in America. Ho scritto "Canzone per Silvia" perché nonostante i numerosi comitati sorti in suo favore, di lei non si sa ancora molto. Ad esempio non si sa che non si chiede la sua liberazione, ma quanto meno la sua estradizione in Italia. "Canzone per Silvia" è una goccia. Del resto cinque minuti di musica sono ben poca cosa. Tuttavia a qualcosa è servita: ai concerti vedo con piacere che vengono raccolte firme, magliette con il volto di Silvia dietro le sbarre, cartoline da inviare all'alta Corte federale della Florida. L'America è il Paese dalle mille facce. C'è il bene e il male. Ogni tanto usano qualcuno come esempio di ciò che per loro è il male. Mai visto un popolo così bisognoso di moniti come quello americano. Le "accuse" che inchiodano Silvia nel carcere della Florida sono quanto mai assurde. L'unica, sul suo conto, fornita da un testimone che l'avrebbe riconosciuta attraverso un passamontagna, è di aver partecipato ad una rapina negli anni Settanta. Tra l'altro, il testimone avrebbe detto, alcuni mesi dopo la sua deposizione, di non ricordare i colori degli occhi di Silvia, il che è tutto dire: chi l'ha vista nelle foto non può non aver notato i suoi due splendidi occhi chiari e azzurri. Per queste vaghe accuse oggi Silvia Baraldini soffre di un tumore, quasi sicuramente di origine psicosomatica. Da sempre è sottoposta ad un regime di vita spaventoso. I primi cinque anni di reclusione è stata rinchiusa nel carcere di Lexington, dove ogni venti minuti ti svegliano accendendo la luce. Un carcere che pochi anni fa, grazie ad Amnesty International. è stato smantellato perché venivano continuamente calpestati i diritti umani. Ancora una volta l'America mostra le sue enormi contraddizioni che vivono all'interno della sua pur grande società: grattacieli, tecnologie avanzate, controversie razziali, edonismi vari, povertà metropolitane. Non so se Silvia abbia potuto ascoltare il brano musicale che ho scritto per lei. Mi racconta sua nipote che le rarissime volte che la vanno a trovare, debbono sottostare ad una prassi snervante: tre aerei da prendere, perquisizioni totali, ogni libro o disco che le portano deve essere prima visionato minuziosamente dalla direzione carceraria, poi per ultimo devono salire su altri due pullman prima di arrivare da Silvia. Dalle informazioni che mi sono giunte so che se Silvia si dichiarasse pentita verrebbe trattata in tutt'altro modo e le possibilità di un'eventuale estradizione sarebbero, allora, davvero tante. Ma di cosa deve pentirsi Silvia? Di un'azione che non ha commesso? Davvero, mai visto un popolo, come quello americano, più bisognoso di moniti. Non so se ci siano idee per cui valga la pena restare chiusi là in un carcere di massima sicurezza. So che ora l'America, di questa forte e piccola donna italiana, ha paura.

 

Da un’intervista audio allegata alla rivista “Tutto” dal titolo “La parola a Guccini” del 1994:

[…] Passiamo all'album Parnassius Guccini. In “Canzone per Silvia” e poi in “Samantha” tu parli rispettivamente di grande nostalgia e di assurda nostalgia. Vuoi chiarire meglio la differenza fra questi due concetti, cioè la nostalgia del non vissuto, l'immaginazione e la nostalgia del già vissuto, le radici.

La nostalgia di Silvia Baraldini è la nostalgia di una persona tenuta in prigione in una terra che non è la sua, tenuta in prigione fino a oltre il 2000 se le cose non cambieranno, lontano da casa. E quindi la nostalgia che prende qualsiasi persona che è fuori sede, e lontano da quelli che sono gli affetti, le possibilità del vivere. La nostalgia invece che provo io poi, non Samantha, che è proprio nella canzone è assurda perché è una nostalgia che non esiste. Parla di due personaggi che ho inventato.

 

Francesco a me interessa rimanere ancora un attimo su “Canzone per Silvia”. Questo perché io ritengo opportuno ricordare ancora una volta attraverso Radio Tutto come è nata questa canzone e a quale vicenda drammatica si riferisce e cosa ci sta dietro. L'accusa per me assurda appunto di una donna italiana che viene trattenuta da 10 anni nelle carceri di massima sicurezza statunitensi solamente per aver appoggiato un movimento rivoluzionario o si dice per reati d'opinione o altre cose più o meno chiare.

Musicassetta allegata alla rivista "Tutto" (1994) con audio intervista a Francesco Guccini

Ma non si sa bene effettivamente. Si parla anche di una rapina ed erano tutti col passamontagna. Un testimone dice: Si l'ho vista. Alla domanda: “Di che colore ha gli occhi?” Dice: “Non ricordo”. Ed è impossibile non ricordare gli occhi della Baraldini che sono di questo azzurro luminoso molto chiaro e quindi... Ma poi non si chiede agli Stati Uniti di lasciarla libera. Si chiede di farla venire in Italia. E io penso che l'America presenti in questo caso una delle sue enormi contraddizioni fra libertà e non libertà. Gli Stati Uniti d'America sono il paese della libertà. Ma sono allo stesso tempo il paese che ha una grandissima paura di qualche cosa che arrivi dall'esterno per cui diventa un caso emblematico. E proprio in questo caso la Baraldini paga l'emblematicità del suo caso.

Certo. Paga anche una sofferenza enorme che le deriva da una grave malattia dalla quale fortunatamente sembra che si stia riprendendo. Malattia forse psicosomatica derivata probabilmente da una serie di torture psicologiche. La notte non l 'hanno fatta dormire per i primi anni.

Si la notte veniva svegliata ogni 20 minuti, ogni mezz'ora nel carcere di Lexinton. E' quasi sicuramente di origine psicosomatica.

 

Francesco hai anche detto che sei tornato a praticare un certo tipo di canzone di denuncia perché i tempi che corrono lo richiedono. Ora vuoi essere un pochettino più esplicito visto che sei anche uno dei pochi disposti a farlo?

Ma sai le canzoni non nascono a caso. Nascono sempre seguendo dei filoni mentali che uno ha. Le canzoni dei cantautori intendo. Una volta c'erano il paroliere il musicista. Il musicista scriveva una melodia ed interveniva il paroliere attraverso delle formulette matematiche, ad esempio 40-25-23 che diventavano poi parole insomma. Era un modo abbastanza assurdo per costruire una canzone. E questa canzoni divenivano di volta in volta costruite per il disco per l'estate o quello per l'inverno, quelle cose lì... Il cantautore, nelle migliori delle ipotesi naturalmente, non segue assolutamente questo sistema. Segue una sua storia mentale, per cui si può fare che la storia personale del cantautore dalle prime canzoni alle ultime guardando i riferimenti ecc. è anche sociale. Perché la canzone rispecchia sempre quello che si sente nell'aria, quello che si sente in giro. Anche una canzone come “Samantha”, per esempio, che non è dichiaratamente politica lo diventa tutto sommato se si pensa a certe connotazioni, a certi risvolti all'interno della canzone. Questo momento in particolare in cui sono successe un tantissime di cose che forse non ci si aspettava nemmeno e si intuivano ma fino in fondo così no. Sono canzoni che si sono quasi autoprodotte direi. Perché una canzone come “Nostra signora dell'ipocrisia” non poteva che nascere in questo momento e non poteva non essere così.

Musicalmente parlando Francesco alcune canzoni di questo album hanno il sapore sudamericano del "bajon" e della “chacarera trunca”. Da dove arriva questa scelta?

Ma no, diciamo che nei primi anni di lavoro eravamo... Tu hai scritto tra l'altro che le mie canzoni allora erano molto monotone. Non è che fossero monotone però rispecchiavano maggiormente un andamento generale. Diciamo che nell'aria c'era un tipo di musica e si seguiva come nella maggior parte dei casi quel tipo di musica. Non avrei mai pensato allora di fare un bajon perché pensavo, non so se erroneamente o giustamente che non sarebbe stato accettato. Almeno non me lo sentivo. Poi col passare degli anni, crescendo, allarghi molto la tua sfera musicale, ma anche allora forse era già... Diciamo che hai meno pregiudizi da questo punto di vista e la musica va tutta bene. Quindi se il vestito di un certo testo è preferibilmente il bajon perché non fare il bajon, perché non fare un valzer, perché non fare un tango. Il fatto della chacarera invece è un altro discorso. Lì c'è Flaco Biondini che, bravissimo chitarrista, ogni tanto ci fa sentire dei pezzi del folklore del suo paese e la chacarera è una danza argentina. A me è piaciuta molto e gli ho detto: “Perché non facciamo una chacarera”. Operazione che è stata di notevole difficoltà perché la lingua italiana mal si adatta tutto sommato ad un tempo caratteristico come quello della chacarera. Ci siamo riusciti, e pare che sia riuscito anche a imparare a cantare perché le prime volte Flaco mi sgridava sempre perché avevo delle divisioni non giuste secondo lui.

In concerto ti poni proprio di fronte a Flaco per cantare “Luna Fortuna”. Una canzone tra l'altro che parla di 2 lune. Quella classica vera e poi l'altra luna un po' più misteriosa più sensuale. Ecco io vorrei come anche hai fatto in concerto che tu aiutassi un po' i tuoi ascoltatori a capire a cosa ti riferisci. Portiamo avanti questa specie di gioco.

E' una luna tipicamente femminile. Alla fine c'è sempre il personaggio femminile ma questo personaggio femminile viene spogliato degli orpelli superficiali e rimane come mamma l'ha fatta. E si vede improvvisamente l'altra luna meravigliosa che offusca la rotondità e la bellezza della luna in cielo.

 

 

Da “Panorama” del 21 gennaio 1994, un’intervista di Roberto Barbolini e Paolo Scarpellini

Butterfly, papillon, mariposa: insomma, una farfalla. Sarà solo un caso se quest'insetto, che per gli antichi simboleggiava l'anima, è così libero fin dal nome che non si posa mai e ha una radice  diversa in ogni lingua? Il lepidottero campeggia, lepido, sulla copertina del nuovo cd di Francesco Guccini, in vendita dal 15 gennaio: nove canzoni dopo un silenzio di quattro anni (l'ultimo album, “Quello che non”, è del 1990), riempito però dalla stesura del secondo romanzo, “Vacca d'un cane” (Feltrinelli), che svetta nella classifica dei più venduti e ha già superato le 70 mila copie. Dalla “Locomotiva” anarcoide d'una sua celebre canzone alla farfalla parnassiana di ora il cantautore modenese non ha smarrito la verve ironica e colta, nonché la voglia di sputare rospi e sogni. Come avrà modo di dimostrare con la tournée, in partenza il 3 febbraio da Parma, che toccherà fra l'altro Firenze, Torino, Genova, Roma e Milano. Riaffiora, in almeno tre brani dell'album,il Guccini “politico”, che graffia e lascia il segno sulla pelle di vecchi e nuovi malcostumi o luoghi comuni. Eppure, il titolo di un album tutt'altro che asettico sembra preso da un manuale di entomologia: “Parnassius Guccinii”. Nessun intento erudito. Piuttosto, un'ironica automitologia. La farfalla appartiene infatti a una sottospecie scoperta l'anno scorso sull'Appennino tosco-emiliano da un entomologo dilettante, Giovanni Sala, che, da ammiratore, ha voluto dedicare la sua scoperta al cantautore, battezzando l'insetto, per la precisione, "Parnassius Mnemosyne Guccinii": «Così finalmente ho la scusa buona per entrare davvero nell'immortalità» scherza Guccini nello studio del suo manager bolognese Renzo Fantini, dove Panorama lo ha raggiunto per parlare in esclusiva del nuovo album ma anche, con la dovuta ironia, dei «massimi sistemi».

 

Foto tratta dall'articolo della rivista "Panorama" (1994)

Cominciamo dalla fine. Nell'ultima canzone del nuovo disco, “Parole”, con citazioni svarianti dal Mercuzio di Shakespeare a Mina, lei se la prende con il diluvio verbale che ci rimbalza addosso da ogni parte. È questo il mondo vero? Se è così, suggerisce un verso, allora «dei buffoni sia il futuro». Un augurio o una maledizione?

Diciamo un invito ironico a prenderla sul ridere. Soprattutto in televisione, se ne sentono davvero di tutti i colori. E questo a opera di parolai sempre più ciarlieri e prepotenti, in grado di sopraffare anche lo spettatore più smaliziato. Memori del vecchio “Elogio di Franti” di Umberto Eco dovremmo davvero riabilitare il ragazzaccio che nel libro “Cuore” irrideva tutto e tutti. Ecco, mi diverto a fare il Franti della situazione, ma ironizzando anche su me stesso. In un verso di Parole, aborrendo la schiatta dei parolai, scrivo: «Non dire più che ci son dentro anch'io».

 

Non prendiamoci sul serio: è questo il messaggio «politico» del cantautore Guccini all'inizio del 1994?

Non il messaggio, ma uno dei tanti messaggi possibili. Sia chiaro: non ho mai creduto al ruolo del cantautore come corifeo della politica: l'unico italiano che sia riuscito a ironizzare con intelligenza su temi politici è stato Fausto Amodei. Quanto a me, penso che si debbano innanzitutto raccontare delle storie, nostre e del mondo che ci circonda, in modo totale e coinvolgente. Solo così, narrando le proprie vicende e i mutati punti di vista in un contesto continuamente in evoluzione, il cantautore può fare a suo modo politica. E questa non è certo l'esigenza primaria di chi scrive canzoni, che so, per Mina o per Battisti.

 

Eppure la figura del cantautore impegnato è dura a morire. Proprio lei, che ha messo in musica gli anni di piombo con canzoni come “Eskìmo” se ne torna fuori adesso con testi e temi sferzanti. Per esempio quelli di «”Nostra signora dell'ipocrisia” o “Canzone per Silvia”, dedicata a Silvia Baraldini, un'italiana accusata di terrorismo, prigioniera e malata negli Stati Uniti...

Lo impongono i tempi: sono momenti in cui bisogna parlare fuori dei denti. “Nostra signora” è partita dallo scoppio di Tangentopoli, un anno fa. Da lì ho allargato il discorso alla complicità televisiva, ai piagnistei generali, al grido di dolore sulla stretta economica. A Silvia Baraldini invece pensavo da più tempo: è stata un'amica a sensibilizzarmi a fondo, a informarmi su tutti gli aspetti di questa storia. Così è venuta fuori una ballata americana, dal sapore quasi country, per far conoscere meglio tutta la vicenda Baraldini. Anche perché non mi sembra abbastanza nota in Italia: adesso che la canterò dal vivo,vediamo se si smuoveranno le acque.

 

Nei testi di questo album s'avverte tangibilmente una mano più accurata, più attenta alle rime, più pignola nelle allitterazioni. Quanto incide, sul cantautore, lo scrittore Guccini?

 

Beh, non dimentichiamo che scrivere è il mio mestiere. E la letteratura è una passione che viene da lontano, alimentata fin da ragazzo sui libri di Calvino, Gadda, Pavese, Fenoglio, Meneghello. La differenza tra il cantautore e lo scrittore la fa il computer: che mi ha fatto vincere l'atavica pigrizia e consentito la fluidità di racconto per diventare narratore. Mentre per comporre canzoni mi metto ancora davanti al foglio bianco, penna in mano.

 

In una canzone del nuovo album, “Samantha”, si autodefinisce "burattinaio di parole». Che cosa intende?

Lo confesso: l'immagine mi piace molto. Raffigura qualcuno che come me muove, sposta e gira le parole con perizia e una certa dose di malizia. Ma solo per creare i fantasmi protagonisti di storie e canzoni. Figure che nascono anche da certami poetici improvvisati con gli amici. Compreso Roberto Benigni che però, devo dire, come verseggiatore in ottava rima - secondo una tradizione popolare che va dall'Appennino tosco-emiliano all'alto Lazio – è uno dei più scarsi.

 

Dalle parole alla musica: si considera anche un «burattinaio di note»?

Be', forse non sono più il vecchio Guccini da «due accordi e via», come mi definì un collega che, di accordi, ne sapeva tre. Ma non mi sento un musicista a tempo pieno. Voglio dire che di solito penso prima alle parole che alla musica. Poi con la chitarra vado dietro all'idea, cercando incipit e accordi. Certo, assieme a me c'è un gruppo di musicisti che sa il fatto suo: da «Flaco» Biondini a Ellade Bandini, da Ares Tavolazzi a Vince Tempera, a Lucio Fabbri. Con alcuni di loro lavoro da più di vent'anni. E il loro apporto mi ha aiutato aiutato a uscire da certe gabbie armoniche ritenute strutturali a un cantautore negli anni Sessanta e Settanta. È una bella soddisfazione, un gran divertimento.

 

Sempre in “Samantha”, fa ricorso a uno slang da teen-ager. È una strizzatina d'occhio, o nostalgia?

Per carità: a 53 anni, giovane non lo sono più da un pezzo. Anzi, mi considero un vécc staladi, come dicono a Modena, ossia un vecchio stantio. Al massimo potrei fare l'assessore alla Cultura di Pavana, il mio paese d'origine sull'Appennino pistoiese. Però mi piace ancora sentire gli umori, tastare il polso ai giovani. Per curiosità, forse per nostalgia. Non certo per calcolo. Mi fa piacere vendere dischi, certo. Ma non mi arrovello su dettagli per accalappiare un pubblico determinato. Né smanio per apparire a tutti i costi sui media con le piume di struzzo infilate nel sedere, come fa certa gente.

 

Allora non farebbe, come certi suoi colleghi, l'opinionista in tv o sui giornali?

In televisione mai. La evito come la peste. Sulla stampa cederei più volentieri: si tratterebbe di interventi più meditati. Me l'hanno chiesto, ma non ho mai vinto la mia radicata pigrizia.

 

A questo punto, che cosa manca a Guccini, musicista e scrittore, per meritare pienamente la qualifica di «più colto dei cantautori italiani», attribuitagli addirittura da Umberto Eco?

Non saprei. Forse la pubblicazione del dizionario Pavanese-Italiano al quale - pigrizia consentendo - lavoro da anni. Avrà interesse quasi museologico, perché ormai sono in pochissimi a parlare l'antico dialetto. Io però lo ritengo utile per documentare una certa civiltà. Il dizionario dovrà assolutamente essere pronto nel 1998 perché in quella data Pavana, frazione di Sambuca Pistoiese, comune di 77 chilometri quadrati su tre vallate con 1.500 abitanti, compirà ufficialmente mille anni. Mi sembra un omaggio dovuto. Intanto, anche quest'anno terrò qualche lezione all'università di Bologna sulla storia materiale delle mie montagne e dei mulini ad acqua nel Medioevo. In fondo, se non fossi diventato cantautore, avrei fatto l'insegnante: un altro mestiere di parole. Per quanto scriva o componga, me ne ritrovo sempre qualcuna attaccata ai pantaloni. Come le pulci.

I TESTI - LATO A

 

Il cielo dell' America son mille cieli sopra a un continente,
il cielo della Florida è uno straccio che è bagnato di celeste,
ma il cielo là in prigione non è cielo, è un qualche cosa che riveste
il giorno e il giorno dopo e un altro ancora sempre dello stesso niente.
E fuori c'è una strada all' infinito, lunga come la speranza,
e attorno c'è un villaggio sfilacciato, motel, chiese, case, aiuole,
paludi dove un tempo ormai lontano dominava il Seminole,
ma attorno alla prigione c'è un deserto dove spesso il vento danza.
Son tanti gli anni fatti e tanti in più che sono ancora da passare,
in giorni e giorni e giorni che fan mesi che fan anni ed anni amari;
a Silvia là in prigione cosa resta? Non le resta che guardare
l' America negli occhi, sorridendo coi suoi limpidi occhi chiari...
Già, l' America è grandiosa ed è potente, tutto e niente, il bene e il male,
città coi grattacieli e con gli slum e nostalgia di un grande ieri,
tecnologia avanzata e all' orizzonte l' orizzonte dei pionieri,
ma a volte l' orizzonte ha solamente una prigione federale.
L' America è una statua che ti accoglie e simboleggia, bianca e pura,
la libertà, e dall' alto fiera abbraccia tutta quanta la nazione,
per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione
perché di questa piccola italiana ora l' America ha paura.
Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare,
paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera.
Nazione di bigotti! Ora vi chiedo di lasciarla ritornare
perché non è possibile rinchiudere le idee in una galera...
Il cielo dell' America son mille cieli sopra a un continente,
ma il cielo là rinchiusi non esiste, è solo un dubbio o un' intuizione;
mi chiedo se ci sono idee per cui valga restare là in prigione
e Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente.
Mi chiedo cosa pensi alla mattina nel trovarsi il sole accanto
o come fa a scacciare fra quei muri la sua grande nostalgia
o quando un acquazzone all' improvviso spezza la monotonia,
mi chiedo cosa faccia adesso Silvia mentre io qui piano la canto...
Mi chiedo ma non riesco a immaginarlo: penso a questa donna forte
che ancora lotta e spera perché sa che adesso non sarà più sola.
La vedo con la sua maglietta addosso con su scritte le parole
"che sempre l' ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte",
"che sempre l' ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte",
"che sempre l' ignoranza fa paura... ed il silenzio è uguale a morte"

E il vento d'estate che viene dal mare
intonerà un canto fra mille rovine,
fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà,
fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.

E dai boschi e dal mare ritorna la vita,
e ancora la terra sarà popolata;
fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà
gli spazi di sempre per mille secoli almeno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo,
ma noi non ci saremo...

L'acqua che passa fra il fango di certi canali
tra ratti sapienti, pneumatici e ruggine e vetri
chissà se è la stessa lucente di sole o fanali
che guarda oleosa passare rinchiusa in tre metri.
Si può stare ore a cercare se c'è in qualche fosso
quell'acqua bevuta di sete o che lava te stesso
o se c'è nel suo correre un segno di un suo filo rosso
che leghi un qualcosa a qualcosa, un pensiero a un riflesso.
Ma l'acqua gira e passa e non sa dirmi niente
di gente e me o di quest'aria bassa.
Ottusa e indifferente cammina e corre via
lascia una scia e non gliene frega niente.
E cade su me che la prendo e la sento filtrare
leggera, infeltrisce i vestiti, intristisce i giardini
portandomi odore d'ozono, giocando a danzare
proietta ricordi sfiniti di vecchi bambini.
Colpendo implacabile il tetto di lunghi vagoni
destando annoiato interesse negli occhi di un gatto
coprendo col proprio scrosciare lo spacco dei tuoni
che restano appesi un momento nel cielo distratto.
E l'acqua passa e gira e il colore poi stinge
cos'è che mi respinge e che m'attira?
Acqua come sudore, acqua fetida e chiara
amara, senza gusto né colore.
Ma l'acqua gira e passa e non sa dirmi niente
di gente e me o di quest'aria bassa.
Ottusa e indifferente cammina e corre via
lascia una scia e non gliene frega niente.
E mormora, urla, sussurra, ti parla, ti schianta
evapora in nuvole cupe rigonfie di nero
e cade, rimbalza e si muta in persona od in pianta
diventa di terra, di vento, di sangue e pensiero.
Ma a volte vorresti mangiarla, sentirtici dentro
un sasso che l'apre affonda, sparisce e non sente
vorresti scavarla, afferarla, lo senti che è il centro
di questo ingranaggio continuo, confuso e vivente.
Acque del mondo intorno, di pozzanghere e pianto
di me che canto al limite del giorno
tra il buio e la paura del tempo e del destino
freddo assassino della notte scura.
Ma l'acqua gira e passa e non sa dirmi niente
di gente e me o di quest'aria bassa.
Ottusa e indifferente cammina e corre via
lascia una scia e non gliene frega niente.

Samantha scende le scale di un policentro attrezzato comunale
trent'anni e poi l'appartamento sarà suo, o meglio, dei suoi genitori
che ogni mese devono strappare il mutuo
da uno stipendio da fame. Ma Milano è tanto grande da impazzire
e il sole incerto becca di sguincio in questa domenica d' Aprile
ogni pietra, ogni portone e ogni altro ammennicolo urbanistico.
Ma Samantha saltella, non sa d'avere le gambe da cervo
e il seno, come si dice, in fiore, teso sopra un corpo ancora acerbo
e Samantha, Samantha ancora non sa d'avere un destino da modella,
corre allegra lungo i graffiti osceni delle scale, quasi donna, quasi
bella.
E fuori Milano muore di malinconia, di sole che tramonta là in
periferia,
di auto del ritorno, famiglie, freni e gas di scarico.
Lontano il centro, è quasi un altro mondo, San Siro un urlo che non
cogli a fondo,
ti taglia un senso vago di infinito panico.
Spunta un gasometro dietro a muri neri, oziosi vagolano i tuoi pensieri,
in aria il cielo è un qualche cosa viola carico.
Andrea è giù nel cortile, jeans regolari e faccia da vinile,
giacca a vento come Dio comanda e legata al polso la bandana,
un piede contro al muro e lì la aspetta perché vuol parlarle, niente,
forse d'amore,
ma non sa che dire, con le parole quasi lombarde che non sanno uscire
e si accende rabbioso una Marlboro di alibi.
E si guardano di sbieco, appena un cenno istintivo di saluto,
ma a Samantha batte il cuore da morire mentre Andrea rimane muto.
E lei ritornerà con le MS per suo padre steso davanti a qualche canale
e lui mediterà al bar, dietro una birra, che la vita può far male.
E Milano sembra che sia lì a abbracciarsi quei due che non sapranno più
parlarsi,
solo sfiorarsi in un momento vago e via.
Samantha presto cambierà quartiere per un destino che non sa vedere
e Andrea diventerà padrone di una pizzeria.
Ed io, burattinaio di parole, perché mi perdo dietro a un primo sole?
Perché mi prende questa assurda nostalgia?

E sorridevi e sapevi sorridere coi tuoi vent’anni portati così,
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans;
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi il perché:
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos’è.

Giorni lunghi fra ieri e domani, giorni strani,
giorni a chiedersi tutto cos’ era, vedersi ogni sera;
ogni sera passare su a prenderti con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là , a passo di danza, a salire le scale
e sentire i tuoi passi che arrivano, il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.

Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova,
era tanto potere parlarci, giocare a guardarci,
tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino,
religione del tirare tardi e aspettare mattino;
e una notte lasciasti portarti via, solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città  addormentata non era mai stata così tanto bella.

Era facile vivere allora ogni ora,
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci,
e ogni notte inventarsi una fantasia da bravi figli dell’ epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava d’ avere trovato la chiave segreta del mondo.

Non fu facile volersi bene, restare assieme
o pensare d’ avere un domani e stare lontani;
tutti e due a immaginarsi: Con chi sarà ? In ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo come il diamante
e a ogni passo lasciare portarci via da un’emozione non piena, non colta:
rivedersi era come rinascere ancora una volta.

Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione,
e il peccato fu creder speciale una storia normale.
Ora il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo,
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi pronti assieme a affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa.

The triangle tingles and the trumpet plays slow …

Farewell, non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d’ estate
con qualcosa di fragile come le storie passate:
forse un tempo poteva commuoverti, ma ora è inutile credo, perché
ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me…

I TESTI - LATO B

 

Alla fine della baldoria c'era nell'aria un silenzio strano
qualcuno ragliava con meno boria e qualcun altro grugniva piano.
Alle sfilate degli stilisti si trasgrediva con meno allegria
ed in quei visi sazi e stravisti pulsava un'ombra di malattia.
Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva
e fra biscotti sponsorizzati vidi un anchorman che piangeva
e poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta
ci svegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa.
Il Mercoledì delle Ceneri ci confessarono bene o male
che la festa era ormai finita, è ormai lontano il Carnevale.
E proclamarono penitenza e in giro andarono col cilicio
ruttando austeri:" ci vuol pazienza, siempre adelante, ma con juicio ".
E fecero voti con faccia scaltra a Nostra Signora dell'Ipocrisia
perché una mano lavasse l'altra, tutti colpevoli e così sia
e minacciosi ed un po' pregando incenso sparsero al loro dio
sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io.
La domenica di mezza Quaresima fu processione di etere di stato
dai puttanieri a diversi pollici, dai furbi del " chi ha dato, ha dato
".
Ed echeggiarono tutte le sere come rintocchi schioccanti a morto
Amen, Mea Culpa e Miserere, ma neanche un cane che sia risorto.
E i cavalieri di tigri a ore e i trombettieri senza ritegno
inamidarono un nuovo pudore, misero a lucido un nuovo sdegno
si andò alle prime con casto lusso e i quiz pagarono sobri milioni
e in pubblico si linciò il riflusso per farci ridiventare buoni.
Così domenica dopo domenica fu una stagione davvero cupa
quel lungo mese della quaresima rise la iena, ululò la lupa,
stelle comete ed altri prodigi facilitarono le conversioni
mulini bianchi tornaron grigi, candidi agnelli certi ex leoni.
Soltanto i pochi che si incazzarono dissero che era l'usato passo
fatto dai soliti che ci marciavano per poi rimetterlo sempre là, in
basso.
Poi tutto tacque, vinse ragione, si placò il cielo, si posò il mare,
solo qualcuno in resurrezione, piano, in silenzio, tornò a pensare.

Certo ha ragione il signore
se dice che siamo in un film
dell'ultimo periodo,
dove i banditi pentiti confessano
se non li processano
e così fra le macchie di sangue la vita è la solita
e fa "audience" se in più c'è la scena
del killer che vomita.
Sa com'è?
E' bello fare del cinema
anche se, lì da imputato
c'è qualcuno che crede di esser nel cinema muto,
è bello fare del cinema,
ma piuttosto che sparare
siam rimasti nascosti a guardare.
A guardare cos'è che ci aspetta alla fine del tunnel,
dei riflussi riflessi su certi pacchetti di Camel,
quando tutto è soltanto un riassunto di modi di dire,
quattro quarti di noia disposti comunque a finire;
l'inflazione però non finisce e ci rende cattivi,
non c'è niente che valga la pena e così siamo vivi.
Ma che cos'è
che ci fa fare del cinema?
Forse questa depressione
o l'istinto di conservazione.
Noi, si va a fare del cinema,
e quando vivere è un problema
rifacciamo da capo la scena.
Sì devo dire che ha proprio ragione il signore,
c'è una crisi tremenda che investe l'intero settore;
è che il pubblico vuole si parli più semplicemente,
così chiari e precisi e banali da non dire niente.
Per capire la storia non serve un discorso più grande;
signorina cultura si spogli e dia qui le mutande.
Sa com'è, Lei,
deve fare del cinema,
mica roba pervertita,
ma un soggetto che serva alla vita;
facciamo tutti del cinema
ma piuttosto che parlare
si rimanga nascosti a pensare.
Ma il gestore di un piccolo cine di periferia
mi diceva che è tutta la vita che aspetta un'idea,
un'idea piccolina che verso il finale si evolve,
nella madre di tutte le storie, l'idea che risolve;
quel soggetto che senti nell'aria e potrebbe arrivare
proprio quando hai già chiuso il locale e cambiato mestiere:
sa com'è, è bello fare del cinema,
tanto sa: facciamo tutti del cinema.

Non bisognerebbe mai ritornare.
Perché calcare i tuoi vecchi passi,
calciare gli stessi sassi
su strade che ti han visto già a occhi bassi?
Non troverai quell'ombra che eri tu
e non avrai quell'ora in più
che hai dissipato e che ora cerchi:
si scioglierà impossibile il pensiero
a rimestare il falso e il vero
in improbabili universi.
Eppure come un cane che alza
il muso e annusa l'aria
batti sempre la tua pista solitaria
e faccia dopo faccia e ancora traccia dopo traccia
torni dove niente ti aprirà le braccia.
E rimpiangere, rimpiangere mai.
Come piovigginano le vecchie cose:
perché tra i libri schiacciare rose
di risa paghe e piene delle spose?
E buttar via un'incognita e uno scopo
trascurare il giorno dopo
come se chiudesse sempre;
studiar la stessa pagina di storia
conosciuta già a memoria,
date e luoghi impressi a mente.
Ma gocciola da sempre sul bagnato
tesoriere dei tuoi giorni
di chi ha preso e di chi ha dato.
E ora dopo ora e dopo un attimo ed ancora
la poetica consueta è "dell'allora".
Primo: Non ricordare.
Perché i ricordi sono falsati
i metri e i cambi sono mutati
per la spietata legge dei mercati.
E' come equilibrarsi sugli specchi
ad ogni occhiata un po' più vecchi
opachi, muti e deformanti.
Frugare dentro ai soliti cassetti
dove non c'è quel che ci metti
e mai le cose più importanti.
E invece come tutti sempre lì a portarli addosso
a ricercare quel sottile straccio rosso
che lega il tempo assente
ed il presente e nella mente
tutto questo poi ci si confonderà.

Notte calda come tante vicino al fiume che canta
aria piena del barlume di un lume fioco in distanza
e di lucciole sfuggenti di cui la notte si ammanta.
E si ammanta di fantasmi, o di un ricordo lontano
mentre al buio della notte che mi trascina per mano
cerco i segni delle piante che mi circondano piano.
Piano, all'ombra della notte, mi sembri fatta di fumo,
sento appena il tuo calore ed il tuo strano profumo
con l'odore del tuo corpo e in questo io mi consumo.
Ma dal monte all'improvviso spunta la bianca luna
e ogni cosa in un istante schiarisce e non è più bruna;
questa luna esagerata ci procurerà fortuna.
La fortuna di un amante è un fiore d'esile stelo
una favola inquietante, fugace e fragile velo,
il respiro di un istante che scomparirà nel cielo.
Cielo e luce all'infinito come se fosse di giorno
mondo magico e fiorito che mi risplende d'intorno
io ti sfoglio con le dita e indovino il tuo contorno.
Il contorno del tuo corpo ora si è fatto reale
è qualcosa bianco e vero, bello da far quasi male
e si insinua in un pensiero che all'improvviso mi assale:
contro il cielo trasformato sorride un'altra luna
ma io so qual è la vera, l'altra non è più nessuna,
questa nuova luna piena mi procurerà fortuna.

Parole, son parole, e quante mai ne ho adoperate
e quante ancora lette e poi sentite,
a raffica, trasmesse, a mano tesa, sussurrate,
sputate, a tanti giri, riverite,
adatte alla mattina, messe in abito da sera,
all' osteria citabili o a Cortina e o a Marghera.

Con gioia di parole ci riempiamo le mascelle
e in aria le facciamo rimbalzare
e se le cento usate sono in fondo sempre quelle
non è importante poi comunicare,
è come l' uomo solo che fischietta dal terrore
e vuole nel silenzio udire un suono, far rumore.

Mio caro amore, si è un po' come commessi viaggiatori
con campionari di parole e umori a ritmi di trecento e più al minuto;
amore muto, beati i letterari marinai, così sul taciturno e cerca guai,
così inventati e pieni di coraggio...

Io non son quei marinai, parole in rima ne ho già dette
e tante, strano, ma ne faccio dire
nostalgiche, incazzate, quanto basta maledette,
ironiche quel tanto per servire
a grattarsi un po' la rogna, soffocati dal collare
adatto per i cani o per la gogna del giullare.

Poi andare sopra un palco per compenso o l' emozione:
chi non ha mai sognato di provare?
Sia chi ha capito tutto e tutto sa per professione
ed ha un orgasmo a scrivere o a fischiare,
sia quelli che ti adorano fedeli, senza intoppi,
coi santi non si scherza, abbasso il Milan, viva Coppi!

Amore sappi, beato chi ha le musiche importanti,
le orchestre, luci e viole sviolinanti, non queste mie di fil di ferro e spago;
amore vago, mi tocca coi miei due giri costanti
fare il make-up a metonimie erranti: che gaffe proprio all'età della ragione...

E sì son tanti gli anni, ma se guardo ancora pochi,
Voltaire non ci ha insegnato ancora niente,
è questo quel periodo in cui i ruggiti si fan fiochi
oppure si ruggisce veramente
ed io del topo sovrastrutturale me ne frego;
chi sia Voltaire, mi dite? Va beh, dopo ve lo spiego.

E se pensate questi i vaniloqui di un anziano,
lo ammetto, ma mettiamoci d' accordo
conosco gente pìa, gente che sa guardar lontano
e alla maturità dicon sia sordo
perchè i rincoglioniti d' ogni parte odian parecchio
la libertà e la chiamano "vagiti", o "ostie" d'un vecchio.

Amore a specchio, è tanto bello urlare dagli schermi,
gettare a terra falsi pachidermi coprendo ad urla il vuoto ed il timore.
Qui sul mio onore, smetterei di giocar con le parole,
ma è un vizio antico e poi quando ci vuole per la battuta mi farei spellare...

E le chiacchiere son tante e se ne fan continuamente,
è tanto bello dar fiato alle trombe
o il vino o robe esotiche rimbomban nella mente,
esplodono parole come bombe,
pillacchere di fango, poesie dette sulla sedia,
ghirlande di semantica e gran tango dei mass-media.

Dibattito in diretta, miti, spot, ex-cineforum,
talk-show, magazine, trend, poi T.V. e radio,
telegiornale, spazi, nuovo, gadget, pista, quorum,
dietrismo, le tangenti, rock e stadio
deviati, bombe, agenti, buco e forza del destino,
scazzato, paranoia e gran minestra dello spino.

Amore fino, lo so che in questo modo cerco guai,
ma non sopporto questi parolai, non dire più che ci son dentro anch' io,
amore mio, se il gioco è essere furbo e intelligente
ti voglio presentare della gente e certamente presto capirai...

Ci sono, sai, nascosti dietro a pieghe di risate
che tiran giù i palazzi dei coglioni,
più sobri e più discreti e che fan meno puttanate
di me che scrivo in rima le canzoni,
i clown senza illusione, fucilati ad ogni muro,
se stan così le cose dei buffoni sia il futuro.

Son quelli che distinguono parole da parole
e sanno sceglier fra Mercuzio e Mina,
che fanno i giocolieri fra le verità e le mode,
i Franti che sghignazzano a dottrina
e irridono ai proverbi e berceran disincantati:
"Frà Mina e Frà Mercuzio son parole, e non son frati !"

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