Metropolis


IL DISCO

Registrato nella primavera del 1981 presso l’Umbi Studio di Modena, Metropolis è il decimo album in studio album di Francesco Guccini.

 

Da Un altro giorno è andato, Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto (Firenze, Giunti Editore, 1999):

“Lo intitolai Metropolis perché parlava di città, ma non di città qualunque: Bisanzio, Venezia, Bologna, Milano, ovvero centri e metropoli con una storia e un'alta valenza simbolica”.

Con Francesco Guccini (voce e chitarra) hanno suonato in Metropolis: Tiziano Barbieri (basso), Juan Carlos «Flaco» Biondini, Paolo Gianolio, Marco «Jimmy» Villotti (chitarre), Enzo Felicitati (trombe), Giancarlo Ferri (violini), Andy J. Forest (armonica a bocca), Deborah Kooperman (banjo), Gian Piero Lucchini (flauti), Giovanni Pezzoli (batterie), Luciano Stella, Vince Tempera, Fio Zanotti (tastiere).

La produzione, la regia e la supervisione degli arrangiamenti collettivi sono stati curati da Pier Farri, mentre il coordinamento artistico da Renzo Fantini. Tecnici del suono: Maurizio Maggi e Franco Zorzi. Gli arrangiamenti dell'album sono curati da Ettore De Carolis.

 

Copertina degli spartiti musicali di "Metropolis"

 

 

L'album è stato distribuito da EMI in formato LP, Stereo8, MC e CD.

Gli spartiti di Metropolis sono stati pubblicati da Edizioni Musicali La Voce del Padrone.

CURIOSITA'

 

L’illustrazione di copertina è di Francesco Lomonaco.

 

Il disegno di Francesco Lomonaco

Tutte le canzoni sono di Francesco Guccini ad eccezione di Venezia (Gian Piero Alloisio con alcune modifiche al testo di Francesco Guccini) e Milano (Poveri bimbi di) (Guccini - Alloisio - Guccini).

 

II brano Venezia non vede tra gli autori Bruno Biggi, che sarà accreditato solo nel CD Guccini Live Collection.

 

Venezia e Lager erano già state incise nel 1979 dall'Assemblea Musicale Teatrale, nell'album Il sogno di Alice.

 

Metropolis è l’ultimo album in cui collabora Pier Farri.

RECENSIONI

Dalla rivista "Adamo" del 1981:

Foto dell'articolo di "Adamo" (1981)

Dopo circa tre anni di gestazione esce “Metropolis”, resoconto musicato di un ipotetico viaggio lungo un cordone (ombelicale) che da “Bologna” passa per “Antenor” in Sud America, e termina alla favolosa “Bisanzio”. Dunque un calderone di climi, di culture, di geografie, di uomini, il tutto rimestato dalla voce strascicata di Guccini e dal suo poetare in rima, un po' tra l’artigianale, l'avvinazzato e il letterario. “Bisanzio” è una città simbolo, un luogo di frontiera che spartisce fra di loro due epoche, due civiltà, due modi di pensare. È il luogo del dubbio, dove si è costretti a rivedere i propri valori, le proprie convinzioni. “Bologna”, invece, è la madre, la sicurezza, la tradizione. Una città un po’ sciatta con il suo provincialismo acuto, eppure cordiale e con velleità cosmopolite. Una città col cattivo gusto degli arricchiti «è una ricca signora che fa contadina», ma anche "capace d'amore, capace di morte, che sa quel che conta e quel che vale». Bologna è la nostalgia e il presente, è un amore a tempo pieno. “Venezia” invece è la decadenza, «un dolore al livello del mare», la morte lenta e ineluttabile. La canzone, atipico in Guccini, non è stata scritta da lui ma da Piero Aloisio, il leader della vecchia Assemblea Musicale Teatrale. Dal mar Mediterraneo un lungo salto in Sud America e si piomba ad “Antenor”, teatro di un rocambolesco romanzo fra gauchos nella pampa. Anche Antenor è simbolo, è la vita che gioca d'azzardo (e forse bara), eppure bisogna «giocare fino in fondo a tutti i costi». Una nota d'ottimismo? In “Lager” tutto si vede nero. Il lager non è soltanto quello storico del «nazi infame», ma la metropoli che ci opprime, ci aliena, costruendo vittime e kapò. Il discorso è un po' vecchio e forse retorico, ma innegabilmente giusto. Ma purtroppo non ci sono mai state civiltà di uomini totalmente felici, mentre Guccini sembrerebbe dire di sì (forse nel futuro, utopia?).

 

 

Dalla rivista “Boy” del 21 settembre 1981, un articolo di Roberto Denti:

Foto tratta dall'articolo della rivista "Boy" (1981)

Di “Bisanzio” e di “Antenòr” chi andava ai concerti sapeva già tutto, “Venezia” non è canzone sua (ma di Giampiero Alloisio, leader dell'Assemblea Musicale Teatrale) eppure anche stavolta Francesco Guccini ha fatto centro. Il suo ultimo Lp, Metropolis sta vendendo moltissimo, secondo un copione ormai noto da anni. Ma che disco è Metropolis? Affascinante, sin dalla copertina. Una mano regge una piccola città dentro una sfera di vetro e basta capovolgerla perché dal cielo cada su tetti, comignoli e viuzze una finta nevicata. Un po' come i souvenir in vendita nelle stazioni, tra le immancabili gondole e i carillon rivestiti di conchiglie laccate, ma anche un disco sofferto, intriso di angoscia esistenziale e malinconia. Ma qual è il filo sottile che lega fra loro le varie canzoni (o le varie città) del disco? Il filo di un viaggio attraverso il tempo e soprattutto alla ricerca dell'uomo, di un particolare che possa in qualche modo spiegare l'universale.  La fiaba della vita. «Sono però  sempre stato affascinato da alcune città», spiega Francesco Guccini, e da sempre le metropoli del suo cuore e della sua fantasia gli evocano fantasmi, visioni, paure. «La canzone che forse mi piace di più e che credo piaccia di più agli amici è “Bisanzio”. E voi vi chiederete il perché di una canzone su Bisanzio... Perché è una città magica che ha avuto ben tre nomi (Costantinopoli, Bisanzio e Istanbul), una città in cui la storia è passata a fiumi. Mi diverto a pensare cosa poteva essere e come poteva essere questa città. E starci, abitarci. Poi Bologna, Venezia, Milano: tre città diversissime fra loro. “Bologna” («una ricca signora che fu contadina, benessere, ville, gioielli e salami in vetrina... che valuta il giusto e la vita e che sa stare in piedi per quanto colpita... ») è un ritratto della mia città, un ritratto affettuoso e anche un poco irriverente». Sempre meno bolognese, ormai Guccini vede le due toni da lontano. Preferisce la vita appartata, a Pavana, sull’Appennino, tra storiche partite a briscola e colossali bevute sino all'alba. Metropoli, addio... E nel disco traspare. Poi c'è “Venezia”, canzone non gucciniana. Ma è tanto bella che ho deciso di inciderla. “Venezia” l'ho sempre sentita così: una città che muore dando la vita. E canto la storia di Stefania che muore a Venezia nel dare alla luce un bimbo, un bimbo che le somiglia. “Milano” è invece la metropoli opprimente («poveri bimbi di Milano coi vestiti comprati all'Upim, abituati ad un cielo a buchi che vedete sempre più lontano»). “Black-out” è un fatto avvenuto a Pavana («Una ghiacciata bestiale fa rimanere al buio la zona - spiega Guccini - e per tutta la notte la gente vive come in un incubo da Medioevo»). “Antenòr” è un episodio tratto da un romanzo di gauchos, il Don Segundos Ombre («è la storia di un giovane costretto ad un duello e ad uccidere un vecchio. O non lo fa e perde così, secondo il codice della sua gente, la faccia, o uccide e dovrà eternamente scappare. E questa per me è spesso la vita: non avere possibilità di scampo, agire ma sapere sempre e comunque di sbagliare»). “Lager” è una canzone nata in risposta alle aberranti affermazioni di un accademico e storico di Francia secondo il quale i campi di sterminio non sarebbero mai esistiti («la dedico a tutti coloro che sono veramente convinti delle proprie idee e che sono pronti a cacciare tutti quelli che non la pensano come loro dentro un lager»). E il cerchio si chiude. Il lager è la stessa metropoli, «un posto», come spiega Guccini, «con tutta una vita normale che si svolge attorno e che nasconde le atrocità di cui si nutre. I lager e i fili spinati, insomma, sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Purtroppo. E ritorna alla mente, un Guccini di tanti anni fa, un Guccini che cantava la triste nenia di un bimbo passato per un camino, nel vento, con altri cento. “Auschwitz” era però, al contrario di Lager, una canzone... ottimista», ammette Guccini e di più non dice. Il futuro che ci attende non è certo dei migliori e “Metropolis” è solo l'inizio di un nuovo discorso. Profetico e malinconico, a tratti distaccato e a tratti rabbioso, sempre coerente e dolorosamente umano.

 

 

Da un’intervista di Piergiuseppe Caporale pubblicata sulla rivista “Music” del luglio-agosto del 1981:

Francesco Guccini e Piergiuseppe Caporale in una foto tratta dalla rivista "Music" (1981)

Come esce fuori "Bisanzio" che potrebbe sembrare una canzone antica ed è invece una canzone quasi fantascientifica?

«La fantascienza è senz'altro uno dei nostri miti (io personalmente ne sono un divoratore): comunque quale migliore fantascienza se non prendersi questa misteriosa “Bisanzio” che ha retto vari secoli dopo il crollo dell'Impero Romano d'occidente, che ha continuato ad andare mentre noi eravamo tutti barbari...? E quelli continuavano tutti a fare le loro cose senza che noi ne sapessimo niente, se non per sentito dire. Quindi, il fascino del misterioso... che è già fantascienza. Poi il fascino non solo della terra in transizione, (di cui ho già parlato ne "la bambina portoghese"), e di questa cosa misteriosa che è trovarsi in un punto geograficamente fatale, ma anche dei momenti in cui una civiltà declina (come la nostra adesso), e ne arriva un'altra di cui non sappiamo e non possiamo sapere».  […]

 "Bologna" è una strana canzone: è dedicata ad una città che tutto sommato l'autore non sente sua. E' vero?

«Beh, che non sento più mia: dal '60 al '73 ,io mi sentivo bolognese. Adesso quando vado in centro mi sembra di non esserci mai stato: ho voluto fare un ritratto, uno schizzo, ed è venuta fuori Bologna "busona". Un'espressione, un colpo di genio che, purtroppo, non è mio, è di un mio amico. La canzone inizialmente diceva “mammana” che rimava con "puttana": mi un amico mi fece notare che "puttana" non era bolognese... a Bologna al massimo devi usare "busona"».

 

I TESTI - LATO A

 

Anche questa sera la luna è sorta affogata in un colore troppo rosso e vago, Vespero non si vede, si è offuscata, la punta dello stilo si è spezzata. Che oroscopo puoi trarre questa sera, Mago?

Io Filemazio, protomedico, matematico, astronomo, forse saggio, ridotto come un cieco a brancicare attorno, non ho la conoscenza od il coraggio per fare quest' oroscopo, per divinar responso, e resto qui a aspettare che ritorni giorno

e devo dire, devo dire, che sono forse troppo vecchio per capire, che ho perso la mia mente in chissà quale abuso, od ozio, ma stan mutando gli astri nelle notti d' equinozio. O forse io, forse io, ho sottovalutato questo nuovo dio. Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando, ma è un debole presagio che non dice come e quando...

Me ne andavo l' altra sera, quasi inconsciamente, giù al porto a Bosphoreion là dove si perde la terra dentro al mare fino quasi al niente e poi ritorna terra e non è più occidente: che importa a questo mare essere azzurro o verde?

Sentivo i canti osceni degli avvinazzati, di gente dallo sguardo pitturato e vuoto... ippodromo, bordello e nordici soldati, Romani e Greci urlate dove siete andati... Sentivo bestemmiare in Alamanno e in Goto...

Città assurda, città strana di questo imperatore sposo di puttana, di plebi smisurate, labirinti ed empietà, di barbari che forse sanno già la verità, di filosofi e di eteree, sospesa tra due mondi, e tra due ere... Fortuna e età han deciso per un giorno non lontano, o il fato chiederebbe che scegliesse la mia mano, ma...

Bisanzio è forse solo un simbolo insondabile, segreto e ambiguo come questa vita, Bisanzio è un mito che non mi è consueto, Bisanzio è un sogno che si fa incompleto, Bisanzio forse non è mai esistita e ancora ignoro e un' altra notte è andata, Lucifero è già sorto, e si alza un po' di vento, c'è freddo sulla torre o è l' età mia malata, confondo vita e morte e non so chi è passata... mi copro col mantello il capo e più non sento, e mi addormento, mi addormento, mi addormento...

Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare, la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia, la vende ai turisti, che cercano in mezzo alla gente l' Europa o l' Oriente, che guardano alzarsi alla sera il fumo - o la rabbia - di Porto Marghera...

Stefania era bella, Stefania non stava mai male, è morta di parto gridando in un letto sudato d' un grande ospedale; aveva vent' anni, un marito, e l' anello nel dito: mi han detto confusi i parenti che quasi il respiro inciampava nei denti...

Venezia è un' albergo, San Marco è senz' altro anche il nome di una pizzeria, la gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra. Stefania d' estate giocava con me nelle vuote domeniche d' ozio. Mia madre parlava, sua madre vendeva Venezia in negozio.

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare, però non ti puoi risvegliare con l' acqua alla gola, e un dolore a livello del mare: il Doge ha cambiato di casa e per mille finestre c'è solo il vagito di un bimbo che è nato, c'è solo la sirena di Mestre...

Stefania affondando, Stefania ha lasciato qualcosa: Novella Duemila e una rosa sul suo comodino, Stefania ha lasciato un bambino. Non so se ai parenti gli ha fatto davvero del male vederla morire ammazzata, morire da sola, in un grande ospedale...

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità: del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega! Stefania è un bambino, comprare o smerciare Venezia sarà il suo destino: può darsi che un giorno saremo contenti di esserne solo lontani parenti...

Si chiamava Antenòr e niente, si chiamava Antenòr e basta perchè per certa gente non importa grado o casta, importa come vivi, ma forse neanche quello, importa se sai usare bene il laccio od il coltello...

Antenòr uscì di casa, uscì di casa quella sera, garrivano i suoi pensieri come fossero bandiera, ma gli occhi erano fessura e il viso tirato a brutto, come all' età in cui credi d'aver fatto quasi tutto...

Un cavallo nitrì, ma quando? Una donna rise, ma dove? La luna uno scudo bianco, un carro le stanghe in alto, chitarra, ozio, parole, chitarra, ozio, parole,

la pampa un ricordo stanco, un mare quell'erba nera, può darsi fosse romantico, ma lui non lo sapeva, ma lui non lo sapeva, ma lui non lo sapeva...

Quella donna rideva ad ore, quella luna solo uno sputo e per quel cavallo non avrebbe speso anche un minuto, è difficile far rumore sulle cose che ci hai ogni giorno, le tue braghe, il tuo sudore e l'odore che porti attorno...

La cantina era quasi vuota, scarsa d' uomini e d' allegria: se straniero l' avresti detta quasi piena di nostalgia. Nostalgia ma di che cosa, d' un oceano mai guardato, di un' Europa mai sentita, d' un linguaggio mai parlato?

Antenòr chiese da bere e scambiò qualche saluto, calmo e serio danzò tutto il rituale ormai saputo uomo e uguale coi suoi pari quasi pari con gli anziani, come breve quella sera, come lunghi i suoi domani.

Proprio allora qualcuno entrando nella luce da dentro al buio lo insultò appena sussurrando, ma sembrava che stesse urlando come per uno schiaffo, come per uno sputo...

Antenòr lo guardò sorpreso, lo studiò e non lo conosceva e il motivo restò sospeso fra la gente ferma in attesa e lui non lo sapeva, e lui non lo sapeva.

Poi sentì di una donna il nome, già scordato o non conosciuto quante volte per altri è vita quello che per noi è un minuto; guardò gli uomini per cercare occhi, dialogo, spiegazione, ma se non trovò condanne, non trovò un'assoluzione...

Antenòr uscì di fuori bilanciando il suo coltello per danzare malvolentieri passi e ritmi del duello: una donna non ricordata ed un uomo mai visto prima lo legavano tra loro come versi con la rima.

Fintò basso e scartò di lato, quanti sguardi sentì sul viso si sentì migliore e stanco, si sentì come un sorriso che serata tutta al contrario, proprio niente da ricordare, puntò il ferro contro il viso, vide il sangue zampillare.

Tutto quanto era stato un lampo, Antenòr respirava forte fece il gesto di offrir la mano, guardò l'altro e capì pian piano che tutto era stato invano, che l'altro cercava morte

e capì che doveva farlo, farlo in fretta perchè non c' era un motivo per ammazzarlo, l' altro cadde e non rispondeva e lui non lo sapeva, e lui non lo sapeva.

Antenòr lo guardò cadere, sentì dire "la colpa è mia", sentì dire "è stato un uomo", sentì dire "fuggi via!" La giustizia disse "bandito", ma un poeta gli avrebbe detto che era come l' Ebreo errante, come il Batavo maledetto...

Quante volte ci è capitato di trovarci di fronte a un muro, quante volte abbiam picchiato, quante volte subito duro, quante cose nate per sbaglio, quanti sbagli nati per caso, quante volte l' orizzonte non va oltre il nostro naso,

Quante volte ci sembra piana, mentre sotto gioca d'azzardo, questa vita che ci birilla come bocce da biliardo, questa cosa che non sappiamo, questo conto senza gli osti, questo gioco da giocare fino in fondo a tutti i costi...

I TESTI - LATO B

 

Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli col seno sul piano padano ed il culo sui colli, Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale, Bologna la grassa e l' umana già un poco Romagna e in odor di Toscana...

Bologna per me provinciale Parigi minore: mercati all' aperto, bistrots, della "rive gauche" l' odore con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l' assenzio cantava ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare.

Però che Bohéme confortevole giocata fra casa e osterie quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie... Oh quanto eravamo poetici, ma senza pudore e paura e i vecchi "imberiaghi" sembravano la letteratura... Oh quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore o vergogna cullati fra i portici cosce di mamma Bologna...

Bologna è una donna emiliana di zigomo forte, Bologna capace d' amore, capace di morte, che sa quel che conta e che vale, che sa dov' è il sugo del sale, che calcola il giusto la vita e che sa stare in piedi per quanto colpita...

Bologna è una ricca signora che fu contadina: benessere, ville, gioielli... e salami in vetrina, che sa che l' odor di miseria da mandare giù è cosa seria e vuole sentirsi sicura con quello che ha addosso, perchè sa la paura.

Lo sprechi il tuo odor di benessere però con lo strano binomio dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio e i tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi confusi e legati a migliaia di mondi diversi? Oh quante parole ti cantano, cullando i cliché della gente, cantando canzoni che è come cantare di niente...

Bologna è una strana signora, volgare matrona, Bologna bambina per bene, Bologna "busona", Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto, rimorso per quel che m' hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato...

Cos'è un lager? E' una cosa nata in tempi tristi, dove dopo passano i turisti, occhi increduli agli orrori visti... "non gettar la pelle del salame!"... Cos'è un lager? E' una cosa come un monumento e il ricordo assieme agli anni è spento, non ce n'è mai stati, solo in quel momento, l' uomo in fondo è buono, meno il nazi infame! Ma ce n'è, ma c'è chi li ha veduti o son balle di sopravvissuti? Illegali i testimoni muti, non si facciano nemmen parlare! Cos'è un lager?

Sono mille e mille occhiaie vuote, sono mani magre abbarbicate ai fili, son baracche, uffici, orari, timbri e ruote, son routine e risa dietro a dei fucili, sono la paura, l' unica emozione, sono angoscia d' anni dove il niente è tutto, sono una pazzia ed un' allucinazione che la nostra noia sembra quasi un rutto, sono il lato buio della nostra mente, sono un qualche cosa da dimenticare, sono eternità di risa di demente, sono un manifesto che si può firmare...

E un lager, cos'è un lager? Il fenomeno ci fu. E' finito! Li commemoriamo, il resto è un mito! l'hanno confermato ieri giù al partito, chi lo afferma è un qualunquista cane! Cos'è un lager? E' una cosa sporca, cosa dei padroni, cosa vergognosa di certe nazioni, noi ammazziamo solo per motivi buoni... quando sono buoni? Sta a noi giudicare! Cos'è un lager? E' una fede certa e salverà la gente, l' utopia che un giorno si farà presente millenaria idea, gran purga d' occidente, chi si oppone è un giuda e lo dovrai schiacciare! Cos'è un lager?

Son recinti e stalli di animali strani, gambe che per anni fan gli stessi passi, esseri diversi, scarsamente umani, cosa fra le cose, l' erba, i mitra, i sassi, ironia per quella che chiamiam ragione, sbagli ammessi solo sempre troppo dopo, prima sventolanti giustificazioni, una causa santa, un luminoso scopo, sono la furiosa prassi del terrore sempre per qualcosa, sempre per la pace, sono un posto in cui spesso la gente muore, sono un posto in cui, peggio, la gente nasce...

E un lager... E' una cosa stata, cosa che sarà, può essere in un ghetto, fabbrica, città, contro queste cose o chi non lo vorrà, contro chi va contro o le difenderà, prima per chi perde e poi chi vincerà, uno ne finisce ed uno sorgerà sempre per il bene dell'umanità, chi fra voi kapò, chi vittima sarà in un lager?

La luce è andata ancora via, ma la stufa è accesa e così sia, a casa mia tu dormirai, ma quali sogni sognerai con questa luna che spaccherà in due le mie risate e le ombre tue, i miei cavalli ed i miei fanti, il tuo Hesse sordo ed i tuoi canti, tutti i ghiaccioli appesi ai fili, tutti i miei giochi e i tuoi monili, i campanili, i pazzi, i santi e l'allegria.

E non andrà il televisore, cosa faremo in queste ore? Rumore attorno non si sente, gochiamo a immaginar la gente, corriamo a fare gli incubi indiscreti, curiosi d' ozi e di segreti, di quei pensieri quotidiani che a notte il sonno fa lontani o che nel sogno sopra a un viso diventan urlo od un sorriso, il paradiso, inferno, mani, l' odio e amore.

Avessi sette vite a mano in ogni casa entrerei piano e mi farei fratello o amante, marito, figlio, re o brigante o mendicante o giocatore, poeta, fabbro, Papa, agricoltore. Ma ho questa vita e il mio destino, e ora cavalco l'appennino e grido al buio più profondo la voglia che ho di stare al mondo: in fondo è proprio un gran bel gioco a far l'amore tanto e non bere poco.

E questo buio, che sollievo, ci dona un altro medioevo, io levo dall' oscurità tutta la nostra civiltà, velocità di macchine a motore, follia di folla e di rumore e metto ritmi più lontani, di bestie, legni, suoni umani, odore d'olio e di candele, fruscìo di canapi e di vele, il miele, il latte, i pani e il vino vero.

Ma chissà poi se erano quelli davvero tempi tanto belli o caroselli che giriamo per l' incertezza che culliamo in questa giostra di figure e suoni, di luci e schermi da illusioni, di baracconi in bene o in male, di eterne fughe dal reale che basta un po' d' oscurità per darci la serenità, semplicità, sapore, sale e ritornelli.

Non voglio tante vite a mano, mi basta questa che viviamo, comuni giorni intensi o pigri, gli specchi ambigui dei miei libri, le tigri della fantasia, tristezza ed ottimismo ed ironia. Ma quante chiacchiere stavolta, che confusione a ruota sciolta, lo so che è un pezzo che parliamo, ma è tanto bello, non dormiamo, beviamo ancora un po' di vino, che tanto tra due sorsi è già mattino.

Su sveglia e guardati d' attorno, sta già arrivando il nuovo giorno, lo storno e il merlo son già in giro, non vorrai fare come il ghiro... Non c'è black-out e tutto è ormai finito e il vecchio frigo è ripartito, con i suoi toni rochi e tristi scatarra versi futuristi... Lo so siam svegli ormai da allora, ma qualche cosa manca ancora... finiamo in gloria amore mio che dopo, a giorno fatto, dormo anch'io...

Quando son nato io pesavo sei chili, avevo spalle da uomo e mani grandi come badili. Quando son nato io eran davvero tempi cupi e le mie strade erano piene di iene e di lupi. Quando son nato io la morte stringeva la vite e la gente del mondo ingoiava cordite...

Poveri bimbi di Milano, coi vestiti comprati all' Upim, abituati ad un cielo a buchi che vedete sempre più lontano. Poveri bimbi di Milano, così fragili, così infelici, che urlate rabbia senza radici con occhi tinti e con niente in mano. Poveri bimbi di Milano, derubati anche di speranza, che danzate la vostra danza in quello zoo metropolitano. Poveri bimbi di Milano, con fazzoletti come giardini, poveri indiani nella riserva, povere giacche blu questurini...

Quando son nato io c' era la fame nera e la vita d' ognuno tirava il lotto ogni sera. Quando son nato io le città erano cimiteri e la primavera sbocciava sopra ai morti di ieri. Quando son nato io alla fine ci fu gran festa e l' uomo si svegliò dal sonno, aprì gli occhi e rialzò la testa...

Poveri bimbi di Milano dall' orizzonte sempre coperto, povera sete di libertà costretta a vivere nel deserto. Poveri bimbi di Milano dalle musiche come un motore, col più terribile dei silenzi la solitudine del rumore. Poveri bimbi di Milano, figli di padri preoccupanti con un esistere da nano e nella mente sogni giganti. Poveri bimbi di Milano, numerosi come minuti, viaggiatori di mete fisse, spettatori sempre seduti...

Quando son nato io, come capita a tutti, il tempo uguale e incurante imponeva i suoi frutti. Quando son nato io nel rogo di San Silvestro si bruciava il passato e il peccato col resto. Quando rinasceremo, come il sogno d' un uomo, bruceremo il futuro in piazza del Duomo...

[spotifyplaybutton play="https://open.spotify.com/album/0VHUAyxLCVV7tGdqggTtZz"/]